[22] Hooligans: una storia da raccontare bene
In Italia periodicamente si sente invocare la repressione all'inglese per risolvere il problema degli stadi, quando invece la formula vincente fu il contrario: responsabilizzazione e privatizzazione.
La bellissima storia del Napoli 2022/23, Campione d’Italia con largo anticipo e largo merito, rischia di essere rovinata dallo scontro tra tifoseria e proprietà ovvero tra il tifo organizzato da una parte e Aurelio De Laurentiis dall’altra.
Non è facile, e porta sostanzialmente ad una analisi scorretta della situazione, schierarsi nettamente da una parte o dall’altra, soprattutto quando un presidente invoca repressione e “Legge Tatcher” per il calcio italiano.
Ci sono secondo me tre punti sui quali bisogna essere molto chiari senza confondere i piani.
Primo.
Vi è un errore di fondo quando si fa un parallelo tra il fenomeno hooligans e quello ultrà in Italia.
Non posso qui fare analisi sociologiche approfondite, ma credo di non stupire nessuno quando dico che il primo era un fenomeno di bande e violenza metropolitana, mentre il secondo - come abbiamo visto in alcuni casi emersi negli ultimi anni che hanno riguardato alcune curve italiane - ha spesso radicamento nella malavita organizzata.
Non è mio costume generalizzare: quanto dico è riscontrabile nei casi che hanno fatto più rumore negli ultimi anni (in vicende come questa, questa, questa e questa) in cui sembrano cambiare i colori ma rimangono alcuni tratti distintivi comuni.
Premesso questo, quindi, credo sia bene fare un primo riferimento a quanto scrive su Tuttosport (purtroppo solo su carta) Alessandro Aliberti che parlando del fenomeno hooligans dice:
importante fu il suggerimento di isolare la minoranza di violenti, iniziando a trattare il fenomeno Hooligans come un problema di ordine pubblico e non come un virus confinato in quell’organismo chiamato calcio
È una proposta metodologica che ho fatto mia in un thread su twitter in cui tra le altre cose dico questo:
Secondo.
Ammettiamo per un attimo, nonostante la premessa, che ci si possa ispirare agli inglesi per affrontare il tema. Non si possono in questo caso non evidenziare alcune verità storiche a partire dalla decostruzione di una falsa narrazione spesso sentita in Italia.
La formula scelta dalla Tatcher fu dannosa (parlo di formula perché una vera e propria legge a cui fare riferimento, con buona pace di De Laurentiis che la invoca, non esiste).
Gli inglesi risolsero i loro problemi con una formula esattamente opposta a quella repressiva.
Tv e giornali hanno costruito in passato l’idea sbagliata, alimentata da commentatori e addetti ai lavori distratti, nella migliore delle ipotesi, quando non apertamente in malafede, che associano il rilancio del calcio inglese dai primi anni 90 ad oggi alle misure introdotte da Margareth Tatcher, che fu primo ministro dal 1979 al 1990.
Ne parla bene Diego D’Avanzo su OneFootball quando evidenzia come il decennio della Lady di ferro fu un disastro che portò alle peggiori stragi calcistiche in Uk, culminate con i 96 morti di Hillsbrough.
Non esiste una vera e propria “Legge Thatcher” da copiare, piuttosto l’ex primo ministro inglese ha adottato diverse misure – dai risultati alterni e talvolta controproducenti- nei suoi 11 anni di governo tra il 1979 e il 1990. (…)
Dopo questo disastro il governo (e non direttamente la Thatcher) incaricò il giudice Peter Taylor di indagare sulla vicenda per realizzare quello che poi diventerà il “Rapporto Taylor”: completato nel 1990 e che sarà lo standard di sicurezza al quale tutte le squadre inglesi di 1° e 2° divisione si adatteranno dal ’94.
Ancora su Tuttosport invece Alessandro Aliberti entra nel dettaglio del Taylor Report che come detto da me nel thread twitter indicò responsabilità politiche precise nel fallimento degli anni precedenti:
secondo la stessa inchiesta, fu in parte proprio la decisione di dividere le gradinate in spicchi recintati, di fatto trasformando gli stadi in lugubri gabbie, unita all’imperizia, all’incapacità e alla serie infinita di errori commessi dalla polizia di Sheffield (per accertare questo, invece, ci sono voluti ben 27 anni), a provocare la tragedia di Hillsborough, in cui persero la vita 96 persone.
Il Taylor Report - suggerendo che tutti gli stadi dovevano avere solo posti a sedere, essere rinnovati in modo da potersi trasformare in luoghi accoglienti, ma soprattutto privati di recinzioni e delle cosiddette barriere anti-Heysel, determinati per il verificarsi della tragedia di Sheffield - diede il via a quel rinnovamento delle strutture che poi fu anche alla base dell’immediato successo della neonata Premier League.
Semplificando, la repressione peggiorò la situazione, gli inglesi risolsero i problemi con una formula che io sintetizzerei con due parole: responsabilizzazione e… privatizzazione.
Terzo.
E qui veniamo al punto me più importante, perché invocare pene severe fa parte del malcostume italico, come se le pene fossero un deterrente a prescindere dal contesto e dalle altre misure trasversali da adottare.
Ma da questo problema si esce appunto con uno sforzo corale, collettivo, per usare un termine tanto caro ai politici italiani: di sistema.
Un dettagliato articolo de l’Ultimo Uomo scritto nel 2019 aiuta meglio a capire cosa realmente accadde in Inghilterra.
Non era solo colpa degli hooligan, ma anche di presidenti che avevano badato ai propri guadagni, non avevano promosso un buon comportamento e apparivano poco interessati ad agire nell’interesse dei tifosi; i giocatori erano arroganti, poco inclini ad accettare le decisioni dell’arbitro e provocatori nelle esultanze – atteggiamenti che avevano portato ad innalzare l’isteria e la tensione.
I comuni e i club non avevano investito a sufficienza per migliorare la qualità delle strutture e offrire qualche attività di intrattenimento nel prepartita, mentre i giornalisti avevano avuto la colpa di mostrare tutti gli atti di violenza senza filtrarne i contenuti e aver costruito una narrazione distopica secondo la quale i tifosi inglesi fossero tutti hooligan pronti a scatenare disordini nelle loro trasferte internazionali.
Mi pare che in questo passaggio qualche analogia in più col caso italiano la si trovi.
Ecco quindi il concetto di responsabilizzazione e di reciprocità.
Ancora da L’Ultimo Uomo, leggo un passaggio che io anni fa semplificavo dicendo: “Se inviti uno al Grand Hotel difficilmente sputerà per terra senza un motivo, se lo inviti in una topaia probabilmente non avrà problemi a pisciare sui muri”.
Il ragionamento di base (del Taylor Report) era questo: servizi deficitari abbassano gli standard di condotta, mentre impianti adeguati migliorano (soprattutto in termini di sicurezza) il comportamento degli spettatori. Pur ammettendo che «non esiste una panacea che garantisca la sicurezza assoluta e risolva tutti i problemi relativi al comportamento e al controllo della folla», Taylor scrisse di essere «soddisfatto che i posti a sedere si avvicinino a questi obiettivi meglio di qualsiasi altra singola misura».
Il modello proposto da Taylor riconobbe che per contrastare le nefandezze di pochi non bisognasse creare disagio ai milioni di tifosi per bene, ma soltanto individuare – attraverso le telecamere e il nome dell’intestatario del biglietto cui è assegnato un preciso posto a sedere – e arrestare i colpevoli. Da qui ecco il suo secco rifiuto alla schedatura obbligatoria perché «ingiusta» e «sproporzionata». Le linee guida da lui tracciate avevano a che fare, al contrario, con il potenziamento delle telecamere e degli exclusion order – l’equivalente dei nostri Daspo – cui affiancare l’obbligo per i colpevoli di football-related offence di trascorrere le due ore della partita all’interno di attendance centre oppure di considerare l’introduzione di un sistema di tagging attraverso l’utilizzo di braccialetti elettronici. Anziché l’approccio draconiano thatcheriano, la sua indagine richiamò ad una maggiore sinergia tra le società ed i propri sostenitori, chiedendo al tempo stesso che le forze dell’ordine utilizzassero quando possibile l’arma del dialogo e della collaborazione.
Quella inglese fu insomma una rivoluzione culturale che diede a tutti un ruolo da rispettare. Se la Tatcher si era concentrata sui tifosi, Taylor aveva invece individuato le responsabilità di tutti: tifosi, società, comuni.
E pure dei giornalisti, perché come mi è capitato di dire in altre occasioni: la narrazione in prospettiva non è mai un elemento indipendente dal contesto.
Infine, ho parlato di privatizzazione, e in questo concetto io ci vedo il passaggio chiave che nel 1992/93 portò alla nascita della Premier League.
Il massimo torneo inglese fu varato tra le altre cose, principalmente perché accaparrandosi i diritti tv (precedentemente gestiti dalla FA e distribuiti su tutta la piramide calcistica) i club avrebbero avuto così più fondi per far fronte agli obblighi di legge sugli impianti.
La storia successiva è nota. Oggi la Premier League è il campionato più ricco del mondo. E questo lo si è ottenuto non con la repressione ma con una presa di responsabilità collettiva.
Quel che pare difficile in Italia è soprattutto questo: trovare una soluzione efficace senza negare i problemi che il tifo organizzato oggi porta con sé e senza al contempo lasciarsi andare a derive repressive (anche perché da noi l’adozione della tessera del tifoso è ormai datata e non sembra aver cambiato i paradigmi).
Il curriculum di Čeferin
Aleksander Čeferin è stato rieletto per acclamazione alla guida della Uefa, promuovendo peraltro Gabriele Gravina a vicepresidente della federazione europea.
Secondo un’inchiesta della testata, la carriera di Čeferin alla guida della federcalcio slovena (NZS), sarebbe iniziata nel 2011 con un curriculum fasullo.
Uno dei requisiti minimi per diventare presidente della NZS è quello di aver ricoperto per almeno 5 anni il ruolo di membro del consiglio di amministrazione di un club calcistico nazionale, e nel suo caso i siti di Uefa e NZS riportano l’informazione secondo cui Čeferin lo sarebbe stato, dal 2006 al 2011, della NK Olimpija Lubljana.
Tuttavia, secondo l’inchiesta di Prava, la realtà sarebbe molto diversa: invece di 5 anni, infatti, lo sarebbe stato solo per 6 mesi, e per il resto in quel periodo si sarebbe limitato a giocare a calcio in una squadra “di avvocati” (amatoriale?).
L’articolo di Prava riporta i documenti che proverebbero che in effetti Čeferin avrebbe “allungato” di quattro anni e mezzo la sua effettiva esperienza nel club sloveno e chiede spiegazioni al presidente Uefa.
Inevitabile avviare questioni di legittimità (ci sono i requisiti o meno?) e onorabilità (in caso di assenza quale è la sua credibilità e affidabilità"?) del diretto interessato.
Attendiamo sviluppi (e le risposte di Ceferin alla testata).
I diritti tv delle leghe minori
Nei giorni scorsi DAZN, che sta puntando molto sul mercato inglese, ha offerto 230 milioni di euro per le leghe minori (Championship, League One e League Two) che come noto sono gestite tutte dalla English Football League.
Alcuni media hanno impropriamente paragonato questa cifra a quella offerta per la Serie B italiana enfatizzando che si tratta di un dato 4 volte superiore.
Tuttavia non si può dimenticare che in Inghilterra i club minori hanno un radicamento molto superiore a quelli italiani, che stiamo parlando di un numero di squadre molto superiore (20 in Serie B, 72 in EFL) e che in Inghilterra la tv a pagamento è 3 volte più diffusa che in Italia (i dati sugli abbonati Sky di qualche anno fa parlavano di questo divario).
Outro
Verso la fine di Inter - Fiorentina mi ha colpito il momento in cui Sofyan Amrabat si è avvicinato alla panchina ed ha mangiato una banana e bevuto un po’ d’acqua dopo aver osservato il digiuno del Ramadan.
Il tema dell’impatto del Ramadan sugli sportivi professionisti è poco dibattuto ma merita di essere analizzato. Un bell’articolo in materia è questo pubblicato da NewFrame.com.
Tra le altre cose si parla delle difficoltà avute da Demba Ba al Newcastle e a Istanbul volendo osservare il digiuno musulmano come da precetto religioso.
Tra le altre cose evidenzio un passaggio non scontato, che mi ha sorpreso:
Ad oggi, non ci sono prove scientifiche a sostegno della percezione secondo cui il digiuno ostacola le massime prestazioni atletiche, né ci sono prove del contrario. Lo studio centrale sull'impatto del Ramadan sul calcio è stato pubblicato nel 2012 dall'Aspetar Orthopaedic Center and Sports Medicine Hospital di Doha, in Qatar.
Yacine Zerguini, un membro del comitato medico della Confederation of African Football che ha contribuito allo studio, ha riassunto i risultati dello studio affermando che non erano universali.
“Non esiste un risultato globale e unico per la ricerca. La conclusione, a mio parere, è che ogni caso deve essere trattato individualmente".
Noi come sempre ci sentiamo tra una settimana.
Restiamo in contatto.
A presto!