[53] Financial Fair play, Premier League al collasso
Gli inglesi studiano come superare i problemi che hanno portato alle recenti penalizzazioni di Everton e Nottingham Forest, che peraltro hanno congelato il mercato di gennaio
Berlino, 13 aprile 2024
Il Fair play finanziario è nato nel 2009 e varato nel 2012 con buone intenzioni: frenare l’indebitamento e l’esposizione finanziaria dei club, spesso esposti a forti rischi esistenziali, oltre che totalmente dipendenti dai patrimoni personali dei proprietari.
Gli effetti di breve periodo sono stati positivi, lo dimostra il fatto stesso che pochi club europei sono falliti negli ultimi 14 anni, ma ad oggi emergono tutti i limiti di un impianto (modificato recentemente ma sulla base degli stessi principi precedenti) che andrebbe rivisto alla radice perché:
cristallizza i valori favorendo i club più ricchi
non risulta efficace nel controllo dei ricavi
disincentiva gli investimenti di chi ha mezzi per far crescere club dal potenziale inespresso
Questo sta risultando abbastanza chiaro in Inghilterra dove quest’anno sono stati penalizzati Everton e Nottingham Forest, mentre club come Aston Villa e Leicester City potrebbero essere le prossime vittime, senza tacere delle oltre 100 accuse al Manchester City (già assolto in sede europea) che andrà a processo in ottobre e delle perdite pesantissime di Tottenham Hotspurs, Newcastle United e Chelsea.
Per questo, in Inghilterra, i club si stanno rendendo sempre più conto di un aspetto che noi in Italia conosciamo molto bene da tempo: la data del 30 giugno (quando si chiudono i bilanci) è ancor più importante di quella di fine mercato per la programmazione del club.
Certamente ricorderete i vincoli imposti dall’Uefa a Inter e Roma negli ultimi anni, quando i loro diesse venivano definiti “re delle plusvalenze” dai giornali per la capacità di generare ricavi straordinari entro il 30 giugno (ne parlava un anno fa anche The Athletic).
Anche per questo - sul tema - mi è parso assurdo e deleterio quanto accaduto alla Juve nella scorsa stagione, peraltro in assenza di un processo ordinario (visto che tutto era partito da una indagine solo in un secondo momento acquisita dalla giustizia sportiva).
Ora la situazione riguarda sempre più i club inglesi, meno abituati di noi a vendere massicciamente per realizzare, e molto più preoccupati di perdere molto, sul valore di giocatori tendenzialmente strapagati (difficile trovare qualcuno che copra i tuoi costi se sei la lega più ricca e che paga di più al mondo).
Ed allora gli inglesi corrono ai ripari.
Questo accade anche in seguito al fatto che nell’ultima finestra di mercato i club non hanno praticamente operato, preoccupati com’erano di incorrere in sanzioni e penalizzazioni.
L’idea di fondo è quella di capire il sistema e regolamentarlo di conseguenza e va secondo me apprezzata la volontà degli inglesi di individuare i problemi e risolverli pensando al lungo periodo.
Non sembra tuttavia convincere l’idea di una imposta di lusso, che vada a rivedere il Fair play finanziario (FFP) interno chiamato Regolamento di profitto e sostenibilità (PSR). Un corpo normativo che sostanzialmente riprende quello europeo (comunque considerato più stringente) allargandone un po’ le maglie. Ma forse non abbastanza.
La storia moderna del calcio è probabilmente stata una serie di decisioni a breve termine, ma questa potrebbe essere la più miope di tutte, ha scritto questa settimana l’Independent.
Un'imposta di lusso consentirebbe ai club di investire ma di pagare semplicemente una multa quando superano i limiti di spesa e non di subire penalizzazioni in classifica.
Su questo punto voglio essere molto chiaro: i risultati del campo vanno sempre il più possibile preservati. Personalmente odio le classifiche riscritte in corsa come la Premier League di quest’anno o i numerosissimi casi del nostro calcio in tutte le categorie.
Il risultato non sarebbe quindi trascurabile, ma qui si tratta di capirne gli effetti di medio e lungo periodo. Anche perché per quello che ne sappiamo fin qui le penalizzazioni sportive rimarrebbero comunque in essere.
È preoccupante che il sistema attuale favorisca coloro che guadagnano di più mentre cristallizza i valori in campo. Questo è sbagliato e non è ciò che il calcio dovrebbe essere.
Ma i club sembrano costantemente concentrarsi sui problemi sbagliati.
Il calcio ha bisogno di una forte regolamentazione finanziaria, non vi è dubbio.
Ma problema non sono le regole in sé. Il problema è il sistema in cui sono inserite.
E qualsiasi regola sarà inutile fino a quando i costi saranno calcolati in percentuale rispetto al fatturato.
Ad oggi c'è una correlazione del 90 per cento tra il monte stipendi e il posizionamento in classifica, e se il fulcro dello sport competitivo - specialmente quando porta ritorni commerciali - è competere, significa che ci sarà sempre l'impulso a spendere di più.
Senza restrizioni, quindi, c'è sempre il pericolo che i club spendano più di quanto possano permettersi.
Il problema sono i ricavi prima ancora che i costi. Ma come spesso accade bisogna intervenire trasversalmente: per anestetizzare l’effetto dei ricavi bisogna imporre regole sui costi e slegarli dai ricavi.
Non è il FFP che tiene i sei grandi club al vertice. È il fatto che i sei grandi fatturano troppo e che questo fatturato è collegato ai costi secondo la bizzarra interpretazione europea del salary cap tale per cui posso spendere fino al 70% del mio fatturato in ingaggi.
Un’assurdità.
La risposta è cambiare quel sistema, non eliminare i controlli essenziali.
La Premier league è il caso più avanzato ed è un bene che siano i club inglesi a porsi il problema. Nessuno come loro ha saputo costruire una lega da nuovo, con principi nuovi.
La Premier League paga £2 miliardi in più di stipendi rispetto a qualsiasi altra lega nazionale, perché ricava più di tutti.
Se c'è una cosa di cui non ha bisogno, è più soldi. Anche perché più soldi tendono a creare più problemi, più divari e più spesa, come dimostrano gli ultimi anni.
Il divario finanziario tra il top e il fondo è più che raddoppiato rispetto a quello che era nel 1992-93.
Sempre più soldi sono concentrati in pochi club, che conseguentemente vincono una percentuale più alta di punti rispetto ai club più ricchi tre decenni fa.
Il Manchester City è stato l'esempio supremo di questo, vincendo più trofei, partite e punti in sei anni di quanto abbia mai fatto qualsiasi altro club inglese nello stesso periodo.
Quindi, ciò di cui ha bisogno la Premier League non è più denaro, ma una maggiore redistribuzione dei fondi. Cosa che ad esempio tutti hanno ammirato come modello quando è stato fatto a proposito dei diritti tv.
Da tempo sono convinto che un intervento possibile e necessario sia la collettivizzazione degli sponsor tecnici (sul modello dei diritti tv) con una revisione delle regole sugli sponsor di maglia. Ovvero due voci che contribuiscono tantissimo alla sperequazione.
Può sembrare una missione impossibile e forse lo è, ma anche i diritti tv prima di essere collettivi erano individuali (non in Inghilterra, ma nei principali paesi europei si). Il punto è se grandi idee riformatrici possono essere messe in campo o meno.
La tassa di lusso può rispondere alla necessità di riequilibrio solo in minima parte.
Potremmo paragonare questa tassa a quanto accadde proprio al Manchester City in Europa quando venne punito la prima volta, nel 2015, dal Fair play finanziario. Personalmente ho sempre pensato che la proprietà avesse ampiamente messo in conto quel rischio (del resto in quel primo processo fin da principio dichiarò di aver sforato i parametri e di voler sanare la situazione) che tutto sommato fu contenuto ma non contenitivo e non certo risolutivo rispetto al tema degli sponsor (sui quali, ricordo sempre, nonostante hackeraggi e indagini doppie l’Uefa non è mai riuscita a sanzionare il club).
Lo scenario è più ampio, e lo sarà fino a che si continuerà a legare i costi ai ricavi in quota percentuale.
Con due effetti, in assenza dei cambiamenti di cui sopra:
Le tariffe di trasferimento e gli stipendi continueranno ad aumentare e si continuerà a spendere sempre di più solo per stare al passo.
Che peraltro è già il problema attuale, perché i vari Everton, Nottingham e compagnia pagano anche quello: essere club ricchi della lega più ricca, destinati a pagare più di tutti la loro necessaria competitività in quello scenario.I club saranno sempre più dipendenti dai patrimoni dei loro proprietari, che è quello che al contrario si voleva superare con il Fair play finanziario.
Non aiuta il fatto che l’Uefa su questi temi non ci senta (la nuova formulazione del FFP come già detto non tocca i principi fuorvianti qui enunciati) e non aiuta il fatto che l’Eca, l’associazione europea dei club sia guidata da Nasser Al-Khelaifi, presidente del PSG che non a caso aveva già proposto il palliativo della tassa di lusso.
Infine, come sempre, è inutile menzionare che la tassa di lusso ha successo negli Usa: gli sport americani hanno una redistribuzione del talento sotto forma di draft e controlli finanziari molto più rigorosi, ma soprattutto una focalizzazione sui costi (attraverso il salary cap vero, che è una cifra non una percentuale).
Il problema, al solito, è il sistema, non la singola misura.
La strada è lunga, ma come detto è un bene che sia la Premier League, che sta al vertice della piramide economica del calcio europeo, a porsi il problema.
L’auspicio è che i club trovino soluzioni lungimiranti e complessive. La tassa di lusso, dentro il sistema attuale, sarebbe un passo indietro e riporterebbe le lancette a prima del Fair play finanziario, senza migliorare gli equilibri nel loro complesso.
Questa settimana
Sul mio canale Youtube ho parlato di:
San Siro e Allianz: quanto vale lo stadio di proprietà?
La curiosa intervista di Cardinale (Milan) a Bloomberg su strategia e stadio
Inter-Oaktree, cosa auspicherei se fossi interista
L’aumento di capitale nel calcio, storia e caso Juventus
Dominio brasiliano
Un interessante articolo di ESPN, in occasione del via della nuova Copa Libertadores, ha raccontato come il Brasile stia reinvestendo i soldi che incassa nel vendere talenti in Europa, per dominare il calcio sudamericano. Le ultime 5 vittorie consecutive in Copa Libertadores sono a testimoniarlo, con 3/5 finali tutte brasiliane, e - aggiungo io - Rio al momento unica città rappresentata da due squadre al prossimo mondiale 2025 negli USA (Buenos Aires dovrebbe raggiungerla quando saranno assegnati i posti in base al ranking, con River Plate e Boca Juniors al momento in vantaggio). Sullo sfondo torna anche l’idea di una Libertadores Panamericana, che comprenda anche il Centro e Nord, dove club messicani e statunitensi sarebbero ottimi avversari in grado di alzare il livello del torneo.
…intanto i sauditi
Questa settimana non hanno fatto shopping, ma non hanno perso tempo quando si è trattato di incarcerare 12 tifosi per aver cantato un canto religioso durante una partita, rivelando qualche problemuccio in termini di diritti umani. In aggiunta a questo, un tifoso in abiti tipici ha ritenuto normale utilizzare una frusta contro un attaccante dopo un diverbio post partita.
Lo chiamano soft-power, ma c’è sempre un retro della medaglia. Se apri il tuo paese allo sport internazionale poi mostri anche questa faccia della medaglia. E il rischio di un effetto boomerang è dietro l’angolo.
E la pallamano?
Se in tanti sport l’arrivo dei sauditi è stato criticato, nella pallamano invece c’è chi come Stefan Kretzschmar, storico campione tedesco e oggi direttore sportivo delle Füchse Berlin si dice preoccupato del disinteresse, dopo che in un primo momento pareva imminente un interesse anche per lo sport seguitissimo in Germania.
Opinione personale: capisco il punto di vista di chi dalla pallamano guadagna soldi e vuole vederne sempre di più, ma il tema chiave prima dei capitali è quello di avere piattaforme affidabili (sul piano legale, finanziario, organizzativo ed economico) sulle quali implementare un piano futuro per qualsiasi sport. I problemi del calcio lo dimostrano: il tema, come detto all’inizio di questa newsletter, non è solo l’afflusso di capitali ma anche la capacità di redistribuirli in ossequio alla competitività interna di un sistema.
Opportunismi (mal riposti)
Mercoledì è circolata la notizia che Eniola Aluko, ex centravanti della Juventus Femminile, sarà presidente del Como Women’s di Serie A femminile. Un paio di pagine LinkedIn (qui e qui) hanno ripreso la notizia - indirettamente confermata attraverso un retweet su LinkedIn dal gruppo Mercury 13, che detiene la proprietà del club - affermando che Eni sarà “la prima presidentessa nera di un club italiano di calcio”.
In realtà la cosa non è vera: non si tratta della prima volta ne in Italia, ne in Lombardia e tantomeno a Como, visto che il Como maschile ha avuto Akosua Puni Essien (moglie di Michael Essien) come presidente (fu ufficializzato il 16 marzo 2017). Lo stesso gruppo ha poi cancellato il mio commento-precisazione al post di retweet in cui concludevo facendo i migliori auguri ad Aluko, a prescindere dal primato non primato.
Trovo davvero triste che temi importanti come quelli che riguardano razza e genere vengano ridotti opportunisticamente a pure leve di marketing.
Caro biglietti
In Inghilterra sono diversi i fronti aperti, oltre a quanto citato già a proposito di regole finanziarie, a testimonianza che anche i ricchi piangono. I tifosi stanno iniziando ad essere spazientiti dall’ennesimo rincaro dei biglietti per vedere le partite di Premier League.
Del tema - in particolare del Tottenham Hotspurs - ha parlato anche Matteo Serra su Linee di questa settimana e mi ripropongo di approfondirlo sia qui che su Youtube perché mi pare che in generale ci siano vari temi di confronto, un po’ di confusione e tante ragioni di approfondimento da non lasciare inevase.
Politica nociva (1)
Nel frattempo invece il Ceo della Premier League, Richard Masters, ha criticato l’istituzione di un regolatore indipendente affermando che questo potrebbe frenare la crescita del campionato inglese. Per esperienza del resto possiamo dire che ogni volta che la politica ha messo mani e piedi nello sport non ha mai portato a buone conseguenze.
Politica nociva (2)
Stando invece alle cose di casa nostra, per non farci mancare niente, Storie Sport, il sito di Michele Spiezia, ci tiene aggiornati su tutte le guerre politiche del nostro sistema sportivo: arbitri, pallacanestro, Serie A (che vuole diventare come la Premier, e nessuno mi ha ancora detto che cosa possa significare…). L’ultima in ordine di tempo è una storia che riguarda lo sci. In generale l’impressione comune è una: a quanto pare l’ultima cosa che conta è lo sport in sé. Leggere attentamente.
Ribadisco come detto in passato: Michele Spiezia è un fuoriclasse.
Outro
Questa newsletter ha passato diverse peripezie ed è un continuo cantiere aperto che sconta la pigrizia del suo redattore, che ha l’inconstanza congenita tra le sue principali caratteristiche personali.
Nonostante questo a due anni dalla nascita può festeggiare i 1.000 iscritti (che grosso modo è anche il numero di letture settimanali) e si appresta a intensificare le pubblicazioni, con altre analisi e diversi approfondimenti in cantiere, che vanno ad integrare la ripresa attività del canale Youtube.
Un ringraziamento è doveroso a ciascuno di voi, in particolare a quelli che di tanto in tanto mi scrivono e mi contattano dopo aver letto l’ultimo numero.
Fa piacere ricevere critiche e apprezzamenti perché a prescindere dal contenuto il gesto di mandare un messaggio denota un interesse per quanto scrivo qui sopra superiore alla media.
Ed è anche di questo che si nutrono iniziative editoriali del genere.
A presto.
Giovanni