Rimettete Coverciano al centro del calcio italiano
Dal centro tecnico sono arrivati tecnici che hanno fatto scuola in nazionale e non, ma da quasi un trentennio il peso politico è calato fino a diventare oggi irrilevante nelle scelte chiave.
Lo ammetto, ho da sempre un debole per il centro tecnico federale di Coverciano. Da quando per la prima volta vi misi piede, accompagnando Adriano Bacconi circa 25 anni fa ai tempi in cui lavoravo per Digital Soccer, fino a quando più di recente ci andai per incontrare i match analyst azzurri e parlare loro di Realtà Virtuale applicata al calcio.
Coverciano ha un fascino pervasivo. Lì dentro respiri la storia. La nostra storia. Eppure da tempo quello che dovrebbe essere il centro del nostro calcio, l’avanguardia culturale e di elaborazione del pensiero (e di conseguenza della nostra identità calcistica) è diventato del tutto marginale per non dire irrilevante nelle decisioni più importanti.
Ultima in ordine di tempo quella sul ct, Gennaro Gattuso, che tutti attribuiscono a Gianluigi Buffon nominato da Gabriele Gravina. Non è questione di vita o di morte, ma di riflessione sul ruolo del CTF fiorentino.
Ne avevo parlato proprio un anno fa all’interno delle mie lunghe riflessioni post-Europeo sulla presunta crisi del calcio italiano.
Ed il nostro problema d’identità si riversa anche sulla formazione.
Fateci caso: la Germania ha avuto Joghi Löw per 16 anni, la Spagna in crisi dopo i fasti della nazionale tra il 2008 e il 2012 ripiega su De La Fuente, l’Inghilterra ottiene i migliori risultati degli ultimi 50 anni con Gareth Southgate. Gli altri si affidano come non mai a tecnici “federali”.
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Noi cerchiamo i parafulmini da mettere in panchina. E questa cosa la riflettiamo su tutta la catena.
Veniamo a noi. Su ilNordEst ho scritto una mia breve analisi del momento: Calcio italiano, eterno anno zero: in campo resistiamo, ma il sistema non regge.
Ho detto cose che spesso avrete probabilmente letto qui. Arrivando ad una conclusione in particolare.
Il calcio italiano sembra ad un eterno anno zero. Giugno ha chiuso la stagione 2024-’25 con l’esonero del ct Luciano Spalletti e l’eliminazione di Inter e Juventus, che quantomeno in America hanno fatto cassa. Ma come siamo messi a confronto con gli altri paesi d’Europa?
Iniziamo distinguendo la nazionale e i club. Sono due mondi diversi e le fortune dell’uno non hanno nulla a che vedere con quelle dell’altro. Altrimenti l’Inghilterra ricchissima vincerebbe sempre Mondiali ed Europei e la Francia che esporta giocatori in tenera età non avrebbe la squadra più talentuosa pur avendo vinto nell’ultimo decennio un solo torneo internazionale (come noi).
Il problema non è certo che in Italia non giocano gli italiani, i primi sei paesi al mondo (dati CIES) per esportazione di calciatori sono Brasile, Argentina, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania. Noi siamo diciassettesimi, a ben guardare ci sono pochi italiani all’estero, il contrario quindi.
I club, invece, non vincono più a livello europeo. Ed è vero: una Europa League e una Conference negli ultimi anni, 4 finali di Champions perse. Tuttavia dal 2020 in poi abbiamo sopravanzato Spagna e Germania nel ranking europeo dell’Uefa (quello che attribuisce i posti nelle Coppe). Non è un risultato da poco. E qui c’è il contraltare.
Significa che in campo ci facciamo valere anche se non abbiamo le ammiraglie come Real, Barcellona, Bayern, PSG. È forse un male? Non proprio, da noi si lotta ed è meglio così. Dal 2020 la Serie A l’hanno vinta 4 squadre diverse, nessuno come noi in Europa. E gli stadi che nel 2015 avevano il 58% di indice di riempimento quest’anno hanno registrato il 93% di presenze rispetto alla capienza.
Ci hanno detto che servivano stadi belli, che ci voleva il belgiuoco e invece guarda un po’, è bastata un po’ di imprevedibilità di risultati per riportare la gente allo stadio in anni in cui nemmeno la situazione economica ha dato extrabudget alle famiglie da spendere in biglietti.
Forse non giocheremo bene, ma in campo ci facciamo valere. Nel 2020 siamo entrati in pandemia con l’Italia quarta con 70.6 punti nel ranking europeo, quest’anno ci confermiamo secondi per il secondo anno di fila a 97.2. Semmai c’è da chiedersi come lo abbiamo fatto. E qui casca l’asino.
Sempre i dati CIES dicono che negli ultimi dieci anni (2015-2024) la Serie A tra acquisti e cessioni ha un bilancio negativo che l’ha portata a spendere 1,46 miliardi netti. Inarrivabile l’Inghilterra (-11.54), mentre la Spagna investe la metà di noi (-0.79) e la Germania sostanzialmente un terzo (-0.59). Anche perché nel frattempo, ad esempio, gli spagnoli fanno giocare i giovani del vivaio 4 volte più dei nostri.
Il problema, insomma, non è tanto in campo, dove ci difendiamo pur senza squadroni. Il problema è che il nostro calcio è insostenibile e dovrebbe ricalibrarsi e non pensare tanto a quello che accade fuori dal confine, ma a come ricostituirsi internamente, altrimenti questo senso di fallimento perenne continuerà ad attanagliare i nostri club di vertice dal primo all’ultimo.
E quindi?
Dentro questo ricalibrarsi il punto di partenza dovrebbe essere quello che facciamo meglio: la tattica, l’allenamento. In una parola: Coverciano.
Ed invece no. Nel 1992 il presidente FIGC Antonio Matarrese ha deciso che in nazionale era meglio promuovere l’allenatore del momento (Sacchi), uno che per sua stessa tacita ammissione faceva capire di essere fuori ruolo: chiedeva stage, chiedeva tempo, voleva i giocatori più a lungo.
La nazionale è un’altra cosa, la nazionale è il regno del qui e adesso, non della progettualità tecnica. Chi dice il contrario per lo più è in cerca di alibi.
Poi ci siamo un attimino ricreduti (e Maldini è arrivato sull’onda dei successi dell’Under 21) ma a quel punto, con presidenti Federali sempre più deboli, di volta in volta ci siamo affidati ai grandi vecchi (Zoff, Trap), ai vincenti (Lippi), ai normalizzatori purché simpatici (i mai sufficientemente apprezzati Donadoni e Prandelli che tuttavia pagarono debolezze di sistema non proprie) e dal 2014 in poi l’impressione è che abbiamo iniziato ad affidarci a chi è libero in quel momento a prescindere dal suo valore (Conte, Ventura, Mancini, Spalletti, Gattuso).
E il discorso vale per le giovanili, dove non si capisce la logica di scelta, onestamente.
Il nostro calcio è nel caos e se c’è una ragione su tutte è che Coverciano non è più il centro populsore dell’identità calcistica nazionale, e nemmeno un centro in cui si fa la politica calcistica di campo (lo è stato in passato), ma semplicemente un esamificio che cerca di autofinanziarsi inventandosi corsi (quand’anche necessari e giusti: match analyst, osservatore) che tuttavia dentro il contesto decisionale sembrano sempre più fini a se stesso.
Secondo me, invece, se vogliamo ripartire dobbiamo ripartire da lì: dalla cultura, dalla conoscenza, dall’innovazione, di nuovo: da una rinnovata identità forte del nostro calcio.
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Note a margine.
Joseph e Bepi. Su Il Mattino di Padova ho scritto un pezzo che analizza lo stile manageriale e comunicativo di Joseph Oughourlian, il proprietario del Calcio Padova neopromosso in Serie B: “Joseph non diventerà mai Bepi”. E non è un pezzo che - a mio giudizio - si esaurisce nei confini della provincia, ma va oltre perché affronta il tema del rapporto tra le piazze e i finanzieri che detengono la maggioranza delle quote dei club. In particolare in un passaggio.
In una delle sue ultime visite in città, Joseph Oughourlian venne accolto da uno striscione di pura poesia: «Joseph, semo quei bianchi». In quelle parole c’è tutta la distanza tra il nostro modo di vivere il calcio e quello che giocoforza è l’approccio di un finanziere franco armeno che gestisce anche un club in Colombia, uno in Francia ed ha una quota di minoranza in uno spagnolo.
I tifosi hanno ragione a chiedergli più cuore, ma è inutile aspettarsi un patron all’italiana, rumoroso, che ogni tanto urla contro il palazzo, che fa qualche scenata contro l’allenatore di turno o si erge a improbabile detrattore del potere. Oughourlian gestisce il club con distacco e misura, si fida dei collaboratori. Non regala siparietti alla Lotito o alla De Laurentiis. Ma a ben pensarci ha realizzato a Padova quel che altri vorrebbero per sè: management locale supportato da capitale internazionale, cosa che (con le dovute proporzioni) l’Atalanta ha egregiamente realizzato dopo l’invidiabile ascesa dell’ultimo decennio.
Intanto i sauditi… hanno messo gli occhi su Messi. Non è solo un trasferimento di mercato, ovviamente. Voi sapete già tutto quello che questo implica.
Il fastidio. Un nuovo genere giornalistico emergente è quello della analisi dei tabelloni del tennis per capire chi arriverà dove. Fortunatamente in Italia chi scrive di tennis non deve sempre rispondere alle logiche di gente che non prima di Sinner non sapeva nemmeno di che colore è la pallina, e qui ci viene in aiuto Claudio Giuliani che nella newsletter Warning “Meglio fortunati che bravi” usa il ritiro di Dimitrov come esempio della casualità e dell’imprevedibilità del tennis, invitando i lettori a non prendersi troppo sul serio quando si parla di tabelloni e pronostici. Il suo punto di vista è quello di chi osserva il tennis da tempo e con disincanto, senza un tifo autoindotto per il campione altoatesino, mettendo in luce quanto spesso siano i dettagli e le coincidenze, più che le analisi tecniche, a decidere le sorti di un torneo. Vale per molte situazioni dello sport, ed in fondo dobbiamo tenerne conto, ma è sempre bene ricordarcene.
Outro.
Il re della testa alta
C’è chi nasce per vincere, chi per partecipare, e poi c’è Mauricio Pochettino: l’uomo che ha trasformato il secondo posto in una forma d’arte. Se esistesse un trofeo per chi arriva dietro agli outsider più improbabili, la sua bacheca sarebbe più piena di quella del Real Madrid.
L’epopea del “Quasi”
Tottenham 2015-16: Il Leicester di Ranieri, dato retrocesso a settembre, si trasforma in una favola e vince la Premier League. Pochettino e il suo Tottenham? Secondi, ovviamente. Ma con stile: superati persino dall’Arsenal all’ultima giornata, per non farsi mancare nulla.
PSG 2020-21: Il Lille, una squadra che in Francia chiamano “i Mastini” ma che sembrava più un cucciolo rispetto ai galacticos parigini, si prende la Ligue 1. Poch? Secondo. Con Neymar, Mbappé e una rosa da videogame, ma secondo.
L’ultimo capolavoro in Gold Cup. Domenica notte ha vinto il Messico, e non è certo una sorpresa epica come le altre due, le due nazionali si dividono i successi dal 2002 dopo l’unica vittoria del Canada (2000).
Ma qui sta l’arte. La nazionale USA era sperimentale, Pochettino ne esce quasi da trionfatore: “ha plasmato lo spirito”. Il progetto. Il futuro. Evviva.
Anche per oggi è tutto. A presto!
Giovanni