2024: calcio e nazionalismo, binomio solido
Dopo 110 anni i valori dei movimenti affermatisi all'inizio del XX secolo sono ancora la radice del calcio per come lo conosciamo: dai campionati alle coppe passando per le nazionali
Brescia, 10 settembre 2024
Gli italiani giocano le partite di calcio come fossero guerre e le guerre come fossero partite di calcio. (Winston Churchill)
In questi giorni sto leggendo un libro molto interessante, di cui ho già parlato nel prologo della newsletter di sabato. Si tratta di Storia della Coppa del mondo di Nicola Sbetti e Riccardo Brizzi.
Raccontando i primi anni del ‘900 calcistico gli autori scrivono:
Ben presto l’egemonia sul calcio sfuggì di mano ai suoi inventori. Il calcio infatti dimostrò di possedere un’innata capacità di indigenizzazione, riuscendo a creare, con un’inusuale forza, potenti confini di identificazione tra gruppi, e divenne uno strumento concreto nelle mani dei gruppi nazionalisti.
Il cosmopolitismo dei primi footballers lasciò infatti spazio ad un crescente nazionalismo (…)
L’originario cosmopolitismo (…) lasciò ben presto spazio a un più rigido internazionalismo, facendo emergere le prime questioni politiche.
Significativamente il sistema di alleanze politiche che avrebbe portato allo scoppio della prima guerra mondiale emerse anche in seno al neonato consesso calcistico mondiale [la FIFA, ndr]. Inoltre, sempre più spesso, il calcio cercava una legittimazione legandosi al crescente militarismo, per esempio nel 1912 nel report annuale della federazione tedesca si leggeva che gli obiettivi del gioco erano di “migliorare la salute del popolo e il potere militare della nazione”. (…)
La reazione della FIFA nel 1904 contribuì a rompere con il cosmopolitismo delle origini e a strutturare sempre più il calcio attorno al principio della rappresentanza nazionale. (…)
[In Italia] la nascita della federazione (nel 1898 FIF, poi dal 1909 FIGC) aveva stimolato, a partire dal confronto del 3 aprile del 1900 con la Svizzera, la creazione di selezioni basate sul principio della residenza e non del sangue, formate in buona parte da calciatori stranieri che nemmeno conoscevano la lingua italiana.
Con l’ingresso nella FIFA nel 1905 si misero invece le basi per la creazione di una squadra nazionale che fece il suo esordio cinque anni più tardi contro la Francia all’Arena di Milano.
Dopo di che tra il 1910 e il 1912 l’Italia giocò ben sei sfide internazionali contro Francia, Svizzera e Ungheria, trovando un crescente successo di pubblico. (…)
Nel quadro della moderna società industriale e di massa il calcio aveva dimostrato di poter garantire ai gruppi di tifosi un palcoscenico di espressione identitaria e di identificazione comunitaria.
Come ben si può capire, quindi, dal 1910 fino ad oggi a trionfare è stato il concetto di cittadinanza, che resiste nel tempo anche se gli ultimi 20 anni lo stanno mettendo in crisi. Una analisi di Vox sul mondiale in Qatar aveva mostrato che 1 giocatore ogni 6 impiegato nel torneo non è nato nel paese che ha rappresentato.
I nazionalisti reagiranno indignati: io vi dico, sarebbe ora di rendersi conto di come stiamo reiterando cose fuori dal tempo! Di porci delle domande anziché pensare che si fa così perché si è sempre fatto così e sempre sarà. Soprattutto in fase di crisi, quando le strutture mostrano i segni del tempo e reagiscono in maniera conservativa.
Ho riportato questi passaggi perché credo che la curiosità giornalistica dovrebbe essere animata dal chiedersi perché le cose e i linguaggi che vediamo e usiamo sono così e vengono raccontati così e non in un altro modo. A farlo bene ad esempio è ilPost, già dal suo payoff “cose spiegate bene”.
Siamo portati a pensare ai giornalisti come a persone che danno risposte. Ma è più vero il contrario: il giornalista bravo fa ottime domande. E pone anche molti interrogativi a se stesso. Andare alle origini, alla storia, ai significati ed ai perché è la parte più importante del lavoro giornalistico.
Siamo nel 2024 e il calcio mondiale è fermo a concetti di oltre un secolo fa.
Nessuno si scandalizza se ai mondiali di basket 2023 fossero assenti praticamente tutti i migliori giocatori del mondo (NBA). Se ci riflettiamo capiamo che quello che vediamo è il prodotto della cultura dominante, ovvero tutto il contrario di una realtà cristallizzata e immodificabile.
E quindi ciò che nel basket è normalità nel calcio sarebbe eresia. Ma l’eresia si oppone direttamente e contraddittoriamente a una verità rivelata e proposta come tale, non è quindi blasfemia in sé. Lo diventa solo se si accetta il quadro dogmatico d’insieme.
Nel calcio i club devono dare i propri giocatori per 90 giorni all’anno alla patria (15 per 4 pause nazionali e una trentina a giugno, malcontati). A decidere i calendari sono l’Uefa e la Fifa. Puro surrealismo rossobruno, ma tant’è. Questi siamo.
Peraltro in questi giorni mi sono imbattuto in un pezzo di Jonathan Wilson sul Guardian, che alcuni considerano il più influente giornalista calcistico al mondo. Wilson scrive che la nuova Champions League “rischia di svalutare i big match europei”.
Un’idea in linea con l’ipernazionalismo sportivo a reti unificate degli inglesi (Boris Johnson non era in nulla diverso da Keir Starmer, su questi aspetti).
I britannici nel 1992 hanno reso indipendente la Premier League dalla Federazione, ma non vogliono che questo accada altrove negli anni 20 del nuovo millennio ed hanno dato il via sulle stesse basi al campionato femminile (discutendo anche di blocco delle retrocessioni), ma guai a spiegare loro che c’è vita fuori dall’isola.
L’autorevole parla di svalutazione: per lui va bene giocare Manchester United - Manchester City un minimo di 2 volte all’anno (oltre a coppe varie) ma straparla di saturazione per Real Madrid - Juventus perché con la nuova formula c’è un 12,5% di possibilità vederla estratta, ovvero mediamente una volta in più ogni 8 anni (al netto degli scontri diretti nella fase playoff, possibili anche prima).
Se mi seguite da un po’ sapete cosa penso del calcio moderno e di come immagino il futuro (in caso contrario: dopo la sentenza sulla Superlega del dicembre scorso ne ho parlato diffusamente qui).
L’estrema sintesi è che io spero che in futuro al centro del calcio ci siano Leghe e Club e non le Federazioni. Più organizzazione a stelle e strisce, meno ordine mondiale emerso dalla prima guerra mondiale.
Purtroppo all’orizzonte non vedo dirigenti illuminati.
Nel frattempo l’ad della Lega Calcio, Luigi De Siervo, dice che la nuova Champions toglie valore alla Serie A, ed ha pienamente ragione a dirlo. È esattamenete così, a conferma del fatto che il problema non era la Superlega, ma l’impianto complessivo dei calendari e delle competizioni.
Semmai dovrebbe chiedersi come questo sia possibile in un calendario con 38 partite di Serie A contro 17 massimo giocate dalle due finaliste della Champions nella nuova formula.
Il problema è il solito: quando la Bosman spostò il mercato calciatori da un ambito nazionale a quello internazionale l’impostazione politica del calcio reagì in maniera conservatrice e l’Uefa allargò la Champions per non perdere la sua posizione egemonica a favore di un campionato Europeo.
A dicembre 2025 sono 30 anni esatti e le partite sono solo aumentate ma nessuno ha puntato su migliori eventi in competizioni più contenute.
Purtroppo su questi temi a Bruxelles si fanno delle gran dormite, e fin che i parlamentari predicheranno di andare al parlamento Ue a rappresentare gli interessi della nazione e non quelli della comunità si potrà cambiare ben poco (al netto della Corte di Giustizia Europea, che sentenziando in linea di diritto e quindi di principio rappresenta l’unica speranza di cambiamento).
Purtroppo all’orizzonte non si vedono personalità politico - manageriali che vogliono migliorare il calcio (e sia chiaro: non sto parlando di Luigi De Siervo, che è persona capace ma che deve rispondere al mandato di massimizzare i ricavi in base alle linee guida della Serie A per quello che è), tutt’al più di impresari che vogliono difendere le loro posizioni di rendita, accampando alibi a giustificare la loro miopia.
Foglie di fico nella migliore delle ipotesi.
Note a margine.
Nations League. La competizione Uefa ha preso il via nel fine settimana. L’Italia ha vinto a Parigi dopo 70 anni e per l’analisi mi affido a due più bravi di me.
il primo è Michele Tossani che scrive nella sua newsletter “Il palo di Resenbrink” (iscrivetevi, offre sempre ottimi spunti)
mentre da parte italiana si è assistito all’abbandono di quel calcio ipertrofico e complesso che si è provato (senza riuscirci) a sviluppare all’Europeo di Germania, da parte francese si è invece avuta la riprova di come, probabilmente, alla fine della sua gestione tecnica Deschamps dovrà sì essere elogiato per quello che ha vinto, ma anche criticato per non aver saputo sfruttare meglio l’immenso bacino di talento di cui dispongono i transalpini
il secondo è Calcio Datato (di cui non cito l’autore per nome, per rispettare la sua legittima volontà di non essere identificato, visto che in nessuna parte del suo sito dice chi è) che scrive:
Il segnale di forza è stato trasformare quella che sembrava un’idea troppo conservativa in una prestazione di coraggio e consapevolezza. Farlo con equilibrio, contro questa Francia, e dopo quell'Europeo, non era scontato.
Israele - Italia. Se ve lo siete perso sabato ho scritto la storia del perché Israele gioca le competizioni Uefa. Nel frattempo l’Italia ha vinto a modo suo: 2-1, corto muso. All’italiana. Siamo tornati.
US Open. Jannik Sinner ha vinto il suo secondo titolo del Grande Slam ma il NYT ha dedicato al torneo un articolo soprattutto per parlare dei problemi organizzativi, dell’affollamento e delle code all’ingresso.
Outro.
Italiani d’esportazione.
Dopo la mia newsletter sul calcio francese e sulla nostra scarsa propensione a esportare giocatori. Alberto mi scrive:
Aggiungo un punto di vista alla tua newsletter.
I nostri calciatori non sono esportabili anche per motivazioni culturali (che spero con le future generazioni vadano appianandosi):
scarsa propensione a imparare una lingua straniera
scarsa capacità di adattamento in contesti socioculturali diversi dal nostro
incapacità di adattamento sul cibo: non sappiamo mangiare, non dico fuori dall’Italia, ma fuori da casa nostra
Mi ha ricordato tra le altre cose una mia discussione con Matti Peters, mio collega tedesco a OneFootball, che qualche settimana fa mi chiese come mai c’è un solo giocatore italiano (Mario Balotelli) ad aver vinto la Premier League.
In realtà lui parlava di giocatori “di movimento”, il secondo è Carlo Cudicini, storico secondo portiere del Chelsea dal 1999 al 2009.
La mia risposta fu semplice: per voi tedeschi è normale accettare che mezza Germania campione del mondo del 1990 giocasse all’estero (in Italia e in Serie A, per la precisione), ma da noi questa cosa - culturalmente - deve essere ancora accettata.
Anche per oggi è tutto. A presto!
Giovanni