[58] Società benefit, modello per il calcio?
La prima B-Corp del mondo del calcio ha vinto la Coppa del Belgio 110 anni dopo l'ultimo trofeo del club. E io colgo la palla al balzo per parlarvi di profitto come fine e come mezzo nello sport.
Berlino, 18 maggio 2024
Dirigere un’azienda solo in termini di profitto è come giocare a tennis guardando il tabellone e non la pallina.
Una delle cose che ancora riescono a stupirmi nella vita sono i percorsi che sembrano creare circuiti e circoli, e ci portano a dire che “il mondo è piccolo”.
In realtà come spiega la mia amica Sara Baroni (qui):
Focus e attenzione oggi rappresentano l’asso nella manica di chi vuole davvero diventare un professionista della complessità.
In sostanza: non è il mondo che è piccolo, è la nostra attenzione ad essere limitata e focalizzata sulle cose che ci appassionano. E che quindi ritornano costantemente.
Vengo al dunque.
Sto scrivendo per Oxigenio (una società di consulenza organizzativa e strategica di Brescia, per la quale curo anche una newsletter mensile a cui potete iscrivervi qui) una pubblicazione sul tema dell’Identità di persone, luoghi, aziende.
Oxigenio è una Società Benefit.
Nel frattempo capita che, nel mio tempo libero, tra i miei locali preferiti di Berlino ci sia un bar belga sulla Schonauser Allee in cui spesso mi intrattengo a parlare con Bart, il proprietario: un belga amante del calcio (fiero tifoso del KSV Waregem, un club che non esiste più, di cui conserva sul bancone il gagliardetto commemorativo della semifinale Uefa 85/86 contro il Colonia).
Tra le squadre di cui spesso parliamo c’è l’Union San Gilloise (che è anche la squadra tifata dal proprietario del mio birrificio di Bruxelles preferito).
Nei giorni scorsi ho scoperto con interessato stupore - grazie a Robin, la newsletter di Andrea Barbuti che vi ho già segnalato nelle settimane scorse - che l’Union SG (fresca vincitrice della coppa del Belgio, con una storia antica tutta da scoprire testimoniata anche dalla foto copertina di questo post) è diventata nel gennaio scorso la prima B-Corp riconosciuta nel mondo del calcio.
Recentemente poi ha vinto la Coppa del Belgio 2024: il primo trofeo alzato da una B-Corp.
Spiega Barbuti:
Le B Corp - la B sta per benefit for all, beneficio per tutti - sono definite “imprese che si impegnano a misurare e considerare le proprie performance ambientali e sociali con la stessa attenzione tradizionalmente riservata ai risultati economici (potremmo aggiungere sportivi, ndr) e che credono nel business come forza positiva che si impegna per produrre valore per la biosfera e la società”.
Il tema di fondo è quello del profitto, questa chimera inseguita da molti club calcistici, che nel mondo delle aziende normali può essere un fine aziendale, ma anche un mezzo attraverso il quale distribuire in tutto o (per lo più) in parte la ricchezza prodotta generando benefici di medio lungo periodo (volti spesso a favorire ulteriore profitto attraverso un circolo virtuoso di identità e benefici) e ottenere risultati indiretti per il bene della società azienda e della società circostante.
In Italia (primo paese al mondo ad attrezzarsi in questo senso) esiste la forma giuridica propria per le società con queste caratteristiche che si chiama Società Benefit.
Società Benefit e B Corp non sono la stessa cosa sul piano formale. Ma su quello sostanziale si rifanno alla stessa visione d’insieme.
Società Benefit é un tipo di forma giuridica legalmente riconosciuta che un'azienda può assumere, mentre B Corp è una certificazione ufficiale rilasciata da B Lab attraverso la misurazione di alcune performance. Qui trovate un quadro più dettagliato delle differenze tra Società Benefit e B Corp.
Sul tema mi è capitato anche di intervistare Francesca De Gottardo, founder di una società benefit molto interessante nel campo della moda, che tra le altre cose mi ha detto:
Se tutte le aziende fossero società benefit vivremmo in un mondo migliore.
La sua Endelea ad esempio ha finanziato una Università in Tanzania per fashion designer e redistribuisce parte dei ricavi.
Mi sono quindi chiesto:
E se tutti i club di calcio fossero B Corp?
Come spesso mi capita, per cultura e principi personali, la riflessione mi ha portato lontano da una risposta radicale e univoca.
Ma sono arrivato ad alcune conclusioni.
Ci ostiniamo a pensare che il calcio sia una cosa sola, quando la sua dimensione pachidermica e la sua inevitabile complessità ne fanno uno sport molteplice, che dovremmo vedere in tutte le sue sfaccettature, anziché ostinarci a trattarlo (spesso con ipocrisia) come un monolite piramidale dove l’unico motore motivazionale sarebbero le promozioni di categoria.
In questi anni, mentre si parla sempre di più di profitto e sostenibilità come orizzonte del calcio iper professionistico globalizzato, mi imbatto sempre più in tanti club identitari (ne ho parlato in questo video) che ottengono risultati e seguito importante a tutti i livelli (dall’FC United of Manchester al Centro Storico Lebowski di Firenze all’Europa CE di Barcellona).
Esiste il calcio dei fondi (e dei fondi sovrani), capitalista o statalista a seconda delle convenienze del momento, ma esiste anche un calcio popolare vero che nel grande dilemma del profitto come fine o come mezzo sta certamente più vicino all’idea che la sostenibilità economica e gli eventuali guadagni di una attività sportiva vadano anche redistribuiti per creare - come fanno le Società Benefit - benefici diffusi, socialità, identità.
Non esiste sul piano squisitamente aziendale, una formula unica che possa abbracciare tutti. Chi investe nei grandi club lo fa perché intuisce possibilità di guadagno migliori che in altri settori (se non col profitto immediato, di certo sulla plusvalenza da rivendita dello stesso club) al di là delle sbandierate volontà filantropiche o sociali (per capirci: quelli che dicono di farlo per tenere i bambini lontani dalla droga).
Quando questi interessi non sono espressi in maniera trasparente lo sport è il boccone più ghiotto per malaffare, corruzione politica e mafie, leggete Football Clan di Raffaele Cantone per farvene un’idea plastica.
Esistono molte aziende che investono nello sport facendolo in buonafede, per il proprio territorio, e queste dovrebbero essere le prime a chiedersi come i loro soldi abbiano realmente creato un valore concreto e duraturo. E a queste possiamo dare un modello di riferimento.
Io credo anche che ci debba essere una proporzionalità tra il territorio e le sue espressioni sportive. Il club di campanile che scalano le categorie spesso finiscono per cessare l’attività lasciando il deserto (nella migliore delle ipotesi, macerie economico finanziarie nella peggiore), e vien da chiedersi: chi ha investito in questi club ha lavorato per le comunità che li seguivano con più trasporto in Eccellenza che tra i professionisti o per la vanagloria di chi (legittimamente eh, ci mancherebbe) ci ha messo i soldi?
A queste riflessioni aggiungo una nota a margine.
Continuiamo a parlare di Superlega e secessione dei grandi club, e non se ne esce.
Ma se ribaltassimo il problema? Se parlassimo della base invece che della vetta della piramide? Se invece di interrogarci sulla distribuzione dei ricavi tra i grandi ci chiedessimo come innanzitutto creare valore reale (patrimonio) per i piccoli?
Se fossero le società dilettantistiche e semi professionistiche a decidere un giorno, in nome anche di sostenibilità e impegno sociale, volendo un “calcio del popolo” vero e non solo quello ipocritamente sbandierato dall’Uefa, di rifondare le proprie leghe su nuove basi?
Pensate che sarebbe meno bello un torneo capace (anche magari riprendendo successi di marketing come la Kings League spagnola) di unificare il territorio in un patto con le aziende radicate sullo stesso in nome del calcio come veicolo di socialità, sostenibilità e coesione?
Quando leggo che una partita decisiva per la vittoria del campionato di Terza Categoria ha richiamato 3 mila persone sugli spalti penso che questa gente ci stia dicendo qualcosa che va oltre la passione per il calcio e il successo della squadra del territorio.
Ci stanno parlando di identità, di se stessi e del loro tempo.
E badate che non sto parlando di volontariato o terzo settore (le Società Benefit non sono questo, sono società profit a tutti gli effetti!) ma di imprese vere e proprie che potrebbero riscrivere le dinamiche dello sport più amato del pianeta. E anche di creare lavoro, perché per dirne una, un qualsiasi campionato di Eccellenza muove ogni anno qualche milione a fondo perso che semplicemente volano via col vento senza una visione d’insieme capace di creare realtà solide, patrimonio materiale e immateriale e sì, anche posti di lavoro appetibili e ben retribuiti.
Che poi dovrebbe essere sempre la priorità delle priorità.
Ah, dimenticavo, se siete interessati alla pubblicazione sull’Identità, in cui potrete anche leggere l’intervista alla founder di Endelea e un mio pezzo sull’identità nello sport: si chiama Commentario, uscirà tra qualche settimana, e lo potete preordinare qui.
Questa settimana
Sul mio canale Youtube:
Il Bilancio sportivo 2023/24 del Milan.
Il primo di una miniserie: mercoledì prossimo si parlerà di Juventus.Il problema delle multiproprietà nelle coppe europee alla luce del caso Manchester City - Girona.
Investimenti e fantasport
Su Finimize, un’app di informazione finanziaria che merita di essere letta, è uscito un articolo che paragona le scelte di portafoglio ai Fantasport. Lo trovate qui. Parla di come il processo di selezione dei giocatori sia simile alla scelta degli asset e di come non esista una strategia unica per avere successo, ma un approccio attivo risulti essenziale, evitando il sovratrading e tagliando le perdite quando necessario. Infine: diversificando per ridurre la volatilità nell’ottica di un portafoglio bilanciato. Nulla di sconvolgente, ma il parallelo col fanta è interessante e rende il tema più accessibile.
Natale con l’NFL
Sta facendo parlare l’operazione Netflix - NFL che porterà le partite del campionato di Football Americano sulla piattaforma dal prossimo 25 dicembre fino al Natale 2026. Anche se Netflix continua a malcelare, la sua presenza a pieno titolo come player dello streaming sportivo è evidente. Quel che cambia é il perché. Se le piattaforme tradizionali come Sky vedevano lo sport come core business, e per Amazon l’investimento rappresenta una pura commodity per spingere un business totalmente diverso con qualcosa di attraente, Netflix vede l’impegno come opportunità per mantenere utenti sulla propria piattaforma e coinvolgerli, oltre che per promuovere le sue produzioni sportive originali (nel caso della NFL la serie “Quarterback”).
Spezzatino o no?
Come spesso accade, negli Stati Uniti si anticipano tendenze che poi vengono esportate, soprattutto nel mondo media, e questa settimana FOS analizza come l’offerta sportiva in streaming negli Stati Uniti sia sempre più frammentata tra le tantissime piattaforme sul mercato. In Europa invece sembra al momento che la tendenza sia opposta. Questa settimana ad esempio DAZN ha annunciato un accordo per le maggiori competizioni di volley che la farà diventare destinazione principale in Italia. Mi pare presto per dire se ci sia un’evoluzione divaricata, soprattutto perché la mia impressione è che gli operatori USA (Netflix, Amazon, Apple) siano più maturi ed abbiano in generale business più sostenibili e consolidati rispetto alle piattaforme europee. Ma appunto, è presto e mi limito a registrare quanto accade.
Sostituire Klopp
Un articolo di Grace Robertson discute della decisione della Liverpool di non sostituire Jürgen Klopp direttamente, riconoscendo che i grandi manager sono difficili da rimpiazzare. Propone il concetto di "ricrearlo nel complesso", ispirato a Moneyball, suggerendo che piuttosto che cercare un clone di Klopp, Liverpool dovrebbe ricostruire le sue qualità distintive attraverso una serie di persone e strategie. Si esplora l'evoluzione della gestione dei dati nel calcio, dal fallimento di Damien Comolli al successo di Michael Edwards, ora il "CEO del calcio" di Liverpool. L'articolo conclude che, nonostante l'importanza del nuovo allenatore Arne Slot, nessuno sarà mai come Klopp e Liverpool cerca di mitigare il rischio investendo in una struttura solida e nel talento di Edwards.
Parigi 2024
Il tema della sostenibilità dei giochi olimpici è sempre d’attualità ed il comitato organizzatore di Parigi 2024 che si terrà quest’estate con cerimonia il 26 luglio, ha diffuso dati particolarmente beneauguranti per l’attuale edizione, generando fino a 12 miliardi di dollari per la regione di Parigi. Quasi 80 aziende fanno parte del programma di sponsorizzazione nazionale di Parigi 2024. Sono stati venduti più di 8 milioni di biglietti per l'evento.
La statistica della settimana
Lionel Messi sta facendo più soldi in MLS (tra 20 e 21 milioni di dollari) di 25 franchigie in totale (Yahoo Sports).
Outro
Dopo la qualificazione dell’Atalanta alla finale di Europa League che si gioca mercoledì a Dublino, Gian Piero Gasperini ha dichiarato:
L'esempio dell'Atalanta può dare speranza al calcio, che è bello proprio per la meritocrazia e non per diritti acquisiti geneticamente.
L’ennesima dichiarazione populista di un oppositore per convenienza della Superlega si presta a un paio di riflessioni.
Innanzitutto un mio vecchio pallino: la meritocrazia è come la democrazia, va per gradi e sistemi e non è univoca. Ogni Stato ha le sue regole costituzionali ma questo non significa che esista uno solo stato democratico e tutti gli altri non lo siano. Idem per la meritocrazia: lo sport americano ha basi totalmente diverse da quello europeo, ma nella loro logica di sistema entrambi sono basati sul merito.
Non è Gasperini a dover dare patenti di merito.
Peraltro l’Atalanta ogni anno incassa dai diritti tv 65 milioni di euro che equivalgono al doppio dell’intero campionato austriaco ed all’intero incasso di quello polacco, e per arrivare a Dublino nel girone ha battuto una squadra polacca ed una austriaca.
Questo perché l’Atalanta quando gioca in Europa League spesso parte con il vantaggio “genetico” (geografico) di essere un club italiano e non divide i suoi ricavi equanimemente coi suoi avversari che vengono da Est.
E questo - homo homini lupus - è un fatto che pone l’Atalanta agli occhi di quei club nella stessa luce in cui sta il Real Madrid agli occhi dell’Atalanta. Infatti anni fa il presidente del Legia Varsavia scrisse una lettera in cui se la prendeva molto più con l’Atalanta e i club medi e piccoli di Italia, Spagna, Germania e Inghilterra che con il Manchester City di turno.
L’Atalanta fattura 200 milioni all’anno circa, ovvero circa 50 milioni in più dello Sporting Lisbona e poco meno dell’Olympique Marsiglia (i club che ha meritatamente battuto nel percorso) che possiamo considerare al di là delle diverse condizioni due club che ad oggi hanno le sue stesse dimensioni.
L’Atalanta ha poi fatto un’impresa a Anfield giocando, contro il ricco Liverpool che fattura circa 3,5 volte la squadra bergamasca, la meno gasperiniana delle partite stagionali: una saggia e cinica applicazione di difesa e contropiede, “all’italiana” dicono alcuni, contenendo il 70% di possesso palla avversario e 2,6 gol attesi della squadra inglese con 3,22 gol attesi creati da 7 occasioni nitide.
Capita, è il bello del calcio giocato in 90 o 180 minuti.
Nessuno nega i grandi meriti di un club che come pochi può fregiarsi di essere considerato modello, ma fossi in Gasperini prima di vendermi al più ottuso populismo mi metterei nelle condizioni di analizzare anche i meriti di chi dentro il suo club ha lavorato per far diventare l’Atalanta - che ricordiamolo, pur mantenendo la direzione nelle mani della famiglia Percassi ha ceduto quote significative ad un fondo statunitense già proprietario dei Boston Celtics in NBA, non a una casa di riposo di Bergamo Alta - la realtà solida che oggi è.
Anche per questa settimana è tutto.
Noi ci sentiamo sabato prossimo, quando sarò ad Amburgo a vedere le finali dell’Europa League di pallamano, in qualità per così dire di “tifoso” delle Füchse Berlin.
E mi raccomando, non toccate mai le coppe prima del tempo!!!
A presto!
Giovanni
Lo sport popolare, nel silenzio di stampa e tv nazionali, si sta espandendo lentamente ma in modo inesorabile. Chi segue le squadre da te citate (ma ce ne sono molte altre) parte da un totale rifiuto culturale dello sport business, quello dei fondi speculativi.
Si rovescia il rapporto tra proprietari e tifosi, dal verticalismo autoritario dei primi all'orizzontalismo democratico dei secondi. Ogni tifoso può scegliere quindi se essere un suddito/consumatore o un rivoluzionario/attivista.
I due mondi non possono unirsi ma avere una reciproca diffidenza fondata sul rispetto.
Anche io concordo che lo sport popolare debba esplorare strade nuove, fondare leghe diverse in cui far conoscere e alimentare la propria visione dello sport fatta di passione e campanilismo. L'errore attuale è porsi a contrasto dello sport business, più lotta utopistica e ideologica che frutto di una strategia.
La parola magia che hai scritto è IDENTITA'. La politica ha fallito il suo compito di aggregatore sociale, dai circoli di partito si è passati alle squadre di calcio dai nomi bislacchi ma espressione di un quartiere o una città di provincia che sogna la vittoria nel derby più che la Champions League.
Lo sport anche come motore sociale per non fermarsi al rettangolo verde ma uscire per le strade a dare un contributo concreto portando sempre i colori e i valori per cui si è scelto di non subire le decisioni di qualche business man che alla storia del club preferisce la valorizzazione del brand.
Un abbraccio
Sempre puntuale e utilissimo. Grazie