Esiste ancora il mito di Wembley?
La nazionale inglese ha perso 5 partite in casa in questo decennio: il doppio del solito, oltre alla finale di Euro '20 contro l'Italia, che nell'immaginario collettivo pesa più di tutte
Berlino, 15 ottobre 2024
In un mondo che sta sviluppando crescente entusiasmo per lo sport, non esiste altro stadio paragonabile a Wembley. (Guida Ufficiale alla British Empire Exhibition, 1924)
Molto spesso mi rendo conto che il mio modo di vedere il calcio è marcato da un netto realismo che ad alcuni può sembrare cupo perché spesso orientato a evidenziare quello che non va molto prima di quel che va.
Malsopporto la nostalgia e i romanticismi, i giudizi sommari e il giornalismo rassicurante, quello che ogni giorno vuole convincervi che le cose sono immutabili rispetto a come le abbiamo sempre raccontate.
Dopo la sconfitta dell’Inghilterra a Wembley con la Grecia ho avuto come l’impressione che i Tre Leoni ultimamente stiano perdendo un po’ troppo in casa.
Ho fatto una ricerca e qui ho trovato le risposte alla mia domanda.
Nello scorso decennio l’Inghilterra ha perso 6 volte, esattamente come era accaduto negli anni ‘90 e con incredibile ripetitività anche negli ‘80 e ‘70.
6 volte ogni decennio: ogni 608 giorni.
Dal dopoguerra al '69, invece, quindi sostanzialmente in più di due decenni, le sconfitte interne erano state solo 8 in totale.
Dal 2002 al 2007 lo stadio fu ricostruito e in quel periodo la squadra costretta a giocare in altri stadi perse 5 volte in casa, a conferma di un certo “effetto Wembley”. Nei restanti anni del 2000 le sconfitte totali (3) furono in linea con la tradizione.
Ebbene, dal 2020 ad oggi sono già 5 le sconfitte. L’Inghilterra perde ogni 290 giorni mentre prima ce ne volevano 608 per batterla a casa sua.
In pratica negli anni ‘20 l’Inghilterra perde il doppio del solito a Wembley.
Domanda naturale. Siamo di fronte alla fine di un mito, di cui ancora non si parla, ma che è già nei fatti?
L’ho chiesto a due persone esperte di calcio inglese e di Wembley.
Il primo è Antonio Cunazza, autore del blog Archistadia e del libro “Wembley la storia, il mito”.
Wembley come icona è quantomai una realtà oggi ma per presupposti completamente diversi da quelli per i quali noi abbiamo conosciuto quel mito.
Siamo davanti a due punti di vista paralleli: da una parte ciò che Wembley rappresenta e racconta sul piano storico e dall’altra parte ciò che è oggi: un’icona mondiale nel campo degli eventi e dell’intrattenimento che prevaricano il calcio.
Non credo abbia più senso di parlare di Wembley come di mito della nazionale inglese di calcio.
Io sono favorevole al fatto che una nazionale abbia un suo stadio, mi piacciono meno le nazionali itineranti. Ma quello che Wembley rappresentava per la nazionale inglese oggi è sceso.
L’Inghilterra è come una squadra di club che gioca in casa, non c’è più l’hype del passato: i giocatori ci vanno, ma per loro è come giocare in un grande stadio d’Europa, si è annacquato il rapporto mitologico, l’influenza è stata messa da parte perché Wembley è stato trasformato in una icona mondiale dell’intrattenimento.
Obiettivo raggiunto, dobbiamo ammettere, perché questo era quello che si voleva con la ricostruzione. Non dimentichiamo che il mito di Wembley era riferito soprattutto al vecchio stadio (demolito nel 2002 e riaperto nel 2007) a cui si aggiunge la straordinarietà di una macchina da intrattenimento in cui il calcio è ormai marginale.
Paradossalmente è più iconica la finale della FA Cup delle partite della nazionale, il rapporto Wembley-nazionale non è più così mitologico perché Wembley è tutto il resto prima che essere lo stadio della nazionale mentre prima era il contrario: fare il Live Aid a Wembley lo elevava all’ennesima potenza perché lo stavi facendo nel tempio del calcio.
Oggi l’Inghilterra gioca le sue partite in casa in un tempio dell’intrattenimento. Wembley ha ancora un enorme valore mitico e iconico ma per presupposti diversi da quelli a cui siamo stati abituati.
Mi viene questo parallelismo: se penso al vecchio stadio ed al nuovo e a cosa è diventato è come una vacanza fantastica in un luogo che ti lascia ricordi bellissimi a 20 anni e poi per varie ragioni ci torni 20 anni dopo convinto di ritrovare le stesse emozioni, ma quando arrivi il posto è cambiato, tu sei cambiato e i presupposti della tua vacanza sono diversi, non hai la compagnia della tua giovinezza e le tue aspettative rimangono deluse.
Qualcosa rimane, ma oggi Wembley è una cosa completamente diversa che va raccontata con altri presupposti.
Il secondo è Roberto Gotta, uno dei giornalisti italiani che più conoscono l’Inghilterra (oltre che grande esperto di sport USA: se amate il football americano conoscete le sue telecronache…), ed autore di “Le reti di Wembley”:
Generazioni di stranieri hanno avuto il mito di Wembley che voleva dire che entravi in quello stadio con la copertura che riverberava il tifo, in più l’Inghilterra lì ci aveva vinto i mondiali.
Da quando il calcio inglese è diventato popolare in tante nazioni c’è molto più tifo che ammirazione, e il tifoso medio preferisce andare a vedere l’Arsenal all’Emirates che una partita a Wembley perché è diventato tifoso. Il Bologna ha giocato ad Anfield e questo non è meno mitologico che aver giocato a Wembley.
Inoltre rispetto a una volta l’Inghilterra la vedi in tv perdere a Wembley e l’hai vista perdere con l’Italia. Oggi Wembley è uno stadio maestoso come ce ne sono altri nel resto d’Europa, come San Siro o il Bernabeu, per dire: non ci vedo stimoli in più.
Ricordo di aver avuto la folgorazione dell’amore per il calcio inglese dalla finale 1974 tra West Ham e Fulham e percepivo nettamente il contrasto con il calcio italiano: uno stadio maestoso, col tetto basso che fa riverberare il tifo, gli spettatori che sembrano formiche sugli spalti e che danno un senso di massa. Per me fu un’epifania.
Quando andai a vedere nel 1979 il Charity Shield Arsenal - Liverpool ero obnubliato dall’emozione, cosa che oggi succede forse più a Old Trafford o Anfield. Parlo qui di tifosi ma forse succede anche ai calciatori.
Cunazza ci offre una visione legata maggiormente all’evoluzione di Wembley come struttura e modello di business, mentre Gotta parla degli aspetti più sociali e della percezione nell’immaginario collettivo.
Aggiungo un mio punto di vista che invece è molto più calcistico.
Io credo che l’egemonia del calcio inglese di club a livello europeo, che porta i giocatori inglesi di almeno 4 diversi club a lottare ogni anno sistematicamente per vincere le coppe europee, abbia spostato il loro impegno e la percezione della chiamata in nazionale.
In qualche modo quello che la nostra nazionale storicamente è stata: una squadra fortissima, che andava in finale ai mondiali sistematicamente ogni 12 anni (dal 1970 al 2006), ma che arrancava contro avversari di medio basso valore.
Oggi mi sembra che i ruoli si siano invertiti: gli inglesi hanno giocato 2 finali negli ultimi europei ed hanno ottenuto nel ‘18 e ‘22 i migliori risultati in due mondiali consecutivi dai tempi dello storico trionfo del ‘66.
Da nazionale collezionista di percentuali di vittorie (l’emblema, la gestione di Fabio Capello: tecnico con la miglior % ma tornei internazionali disastrosi) a nazionale che migliora nei tornei, quando la posta in gioco si alza.
Noi invece abbiamo una squadra che si applica molto di più nelle partite normali - lo dimostra il risultato di ieri sera, dentro un girone che stiamo superando agevolmente a prescindere dal valore degli avversari - ma fatica quando si alza l’asticella, come dimostrano le mancate qualificazioni ai mondiali e l’ultimo dimenticabilissimo eruopeo, con il 2021 come eccezione che conferma la regola.
Pura teoria? I risultati sembrano dire questo. Voi potete commentare, se volete…
Note a margine.
Italia - Belgio 2-2. L’espulsione di Pellegrini ha fatto da spartiacque ad una partita che sembrava confermare la nostra buona stella contro i belgi. L’Italia ha pareggiato un match casalingo dopo essere andata sopra nel punteggio di due reti per la prima volta dall’8 febbraio 1978: 2-2 contro la Francia, alla doppietta di Graziani per gli Azzurri risposero Dominique Bathenay e Michel Platini. Una partita, quest’ultima (qui nel servizio RAI di Beppe Viola), che è a suo modo nella storia: si dice che fosse in quell’occasione che le attenzioni della Serie A (ai temi a frontiere chiuse) e in particolare dell’Inter, nei confronti di Platini (autore di due gol su punizione, il primo annullato) fossero diventate concrete. Poi sappiamo com’è andata.
Italia - Israele 4-1. Vittoria doveva essere ed è stata per la nazionale che tuttavia ha subito reti per l’ottava volta di fila contro Israele che rimane in serie: va in gol da 9 consecutive. Vittoria firmata dai fedelissimi grazie alla doppietta di Giovanni Di Lorenzo, il giocatore con il più alto minutaggio tra quelli della nazionale, e al gol di Davide Frattesi che invece detiene il record di convocazioni con l’attuale CT (oltre che essere il giocatore che ha segnato maggiormente). Per l’Italia è stata la decima partita a Udine, dove la nazionale non ha mai perso (solo a Firenze, 30 gare senza sconfitte) un bilancio migliore.
Saviano sugli ultras. Se non l’avete già fatto vale la pena di ascoltare quello che Roberto Saviano dice sul mondo ultras e i rapporti con le mafie in un video su Fanpage.it. Ne avevo parlato in “Ultras, narrazione di un fenomeno italiano” (e in particolare in una risposta ai commenti). “Ma non preoccupatevi - chiude Saviano - ormai è passata più di una settimana dalla vicenda e non se ne parlerà più, potremo tornare tutti a divertirci”.
Outro.
Var a chiamata si o no?
Siccome mi piace il dibattito e soprattutto sono sempre molto attento alle opinioni diverse dalle mie, e poi per questo numero della newsletter avevo voglia di far parlare qualcuno di esterno, ho chiesto due pareri autorevoli sul tema del VAR a chiamata, a proposito del quale mi sono espresso qui nell’Outro: “I puntini sul Var”.
La mia opinione è che bisogna fare un passo indietro, utilizzando la tecnologia per pure rilevazioni, laddove oggettiva, non per valutazioni.
Ospito quindi volentieri le opinioni (in ordine alfabetico) dei due principali critici arbitrali italiani, Gianpaolo Calvarese (Amazon, ha peraltro lanciato da poco il suo sito calvar.it) e Luca Marelli (DAZN), che non la pensano come me, ma proprio per questo ascolto con ancor più interesse.
Giampaolo Calvarese:
Sono convinto che tutto quello che può aiutare il Var a crescere debba essere messo in opera. La chiamata sarebbe una soluzione che aiuta dal punto di vista della trasparenza e dell’accettazione da parte degli addetti ai lavori.
Ben venga il Var a chiamata, ovviamente va sperimentato: è stato fatto sui tornei minori, la FIFA ha a cuore questo passo, la FIGC ha aperto a questa possibilità, ovviamente tutto dovrà essere poi riportato all’IFAB che darà il sigillo finale.
Bisogna capire realmente quante chiamate per panchina e chi deve farle: il calcio non è il basket, vive di momenti che a livello emozionale valgono una partita quindi interrompere quei gradi emozionali potrebbe comportare una diminuzione di interesse.
Io sono convinto che i lati positivi siano maggiori. Credo che sarà introdotta a breve.
Luca Marelli:
Sono favorevole per due motivi: il primo che in questo momento il var è uno strumento a disposizione degli arbitri ma credo che debba essere messo a disposizione di tutti, del calcio, degli allenatori o del capitano ad esempio.
Il secondo motivo è che in questa maniera anche le società, le squadre, i giocatori, i tifosi si renderebbero conto di quanto è complesso decidere in un secondo. Io in questo senso sono da sempre favorevole.
Se può migliorare la conduzione di gara degli arbitri? Non so, non sono un indovino.
Cosa ne pensate? Fatemelo sapere nei commenti.
Anche per oggi è tutto. A presto.
Giovanni