La crisi della narrazione sportiva influenza anche le scelte di campo
Se provassimo ad abbracciare la complessità dei nostri tempi, anche ridando dignità al giornalismo sportivo, ci renderemmo conto di molte cose che non vanno ma che sfuggono ai più.
Berlino, 19 giugno 2025
Ci siamo abituati a vedere in TV ex calciatori che spiegano il calcio al mondo come se l’avessero inventato loro. Il campo è diventato l’unico certificato di competenza, la biografia il lasciapassare per ogni tavolo di discussione.
Il risultato? Un dibattito sempre più monocorde, nostalgico, autocelebrativo. Ogni volta che un microfono si accende, arriva il mantra: “Quando giocavamo noi era un altro calcio. Più vero. Più duro. Più maschio.”
In fondo, se ci pensate, aver scelto Rino Gattuso come CT della nazionale è un bel segno dei tempi.
È un campione del mondo. È inattaccabile.
Ha giocato e vinto le Champions. È inappuntabile.
Nessuno si aspetta da lui fronzoli e filosofie, solo qualche chilo di nostalgia bella al sangue con una spruzzatina di sacrificio e contorno a sazietà di operaismo a cubetti, del resto si sa, i contorni sono all you can eat.
Una volta c’erano le voci dei giornalisti: critici, polemici, esagerati, ma preparati e scolastici, nel senso che avevano metodo, lo rivendicavano ed esercitavano. Oggi no. Oggi il giornalista sta in un angolo. Fa da spalla, da moderatore, da imboccatore. Sopravvive qualche panda, primo consapevole di essere destinato all’estinzione.
Il panda, quando prova a ragionare, rischia di essere subito zittito da chi “ha vissuto lo spogliatoio”.
In molti casi non c’è stato ricambio generazionale, in altri il ricambio generazionale ha premiato coloro che si sono meglio allineati al metodo degli ex calciatori.
Un anno fa un articolo de Il Pensiero Storico mi colpì molto.
L’esaltazione del “naturale” e dell’autenticità rappresenta una regressione culturale. Stiamo parlando di un contesto diverso ma che riflette il declino dell’innovazione in Italia. Citando Freud, l’articolo interpreta questo come un ritorno a una nostalgia scopica di semplicità che ostacola una reale evoluzione sociale e culturale.
Questa nostalgia della semplicità è ad esempio ciò che ci ha portato a creare una dicotomia che in realtà non esiste, tra intuizione pura e supporto statistico nelle scelte di campo e di mercato. Solo un mondo che non riesce ad abbracciare la complessità può accettare tale semplificazione fuoriluogo.
Che poi il punto non è che gli ex calciatori non abbiano nulla da dire, ce ne sono di bravi e preparati, almeno fino a che non finiscono per adottare toni messianici.
Il punto è che sono gli unici a parlare davvero.
E se il giornalista vuole restare nel gioco, deve adeguarsi: parlare il covercianese, citare "i braccetti", "il terzo uomo", "la postura del corpo" e, naturalmente, il sacro “principio di ampiezza”.
Un lessico tecnico che spesso non illumina, ma esclude. E che di fatto allontana il pubblico medio, creando una casta del “gioco giocato” che si parla addosso.
Un lessico che al contrario un tempo era generato dagli stessi narratori. Non per emulazione.
Tempo fa mi stupì quel che disse il grande Riccardo Muti al mio collega Jacopo Guerriero in una intervista a ilNordEst sul concetto di conoscenza musicale:
Da un punto di vista oggettivo vuole dire conoscere la partitura, la scrittura, l’architettura musicale. Ma il punto non è comprendere come è costruito un pezzo di musica. Il punto profondo, difficile, misterioso è, come diceva Mozart, capire ciò che sta dietro la musica. Il messaggio misterioso è dietro le note. E ci può arrivare una persona priva di conoscenza musicale per sintonia, per intuizione. Paradossalmente, invece, a un musicista può capitare di non arrivarci.
Da un punto di vista metodologico Muti ci sta dicendo che la complessità necessita di comprensione e quest’ultima non ha un modo univoco (ma tanti modi, una ulteriore complessità) per arrivare all’interpretazione, alla decodificazione.
Non si tratta qui di escludere, di affermare la superiorità di un metodo sull’altro, ma di allargare il perimetro, di abbracciare le diversità, capirne la ricchezza.
Poi, tornando al calcio, il problema non è solo il linguaggio. È il tono nostalgico sistematico, quel riflesso condizionato che porta molti ex a idealizzare il passato e disprezzare il presente.
Frasi tipo:
“Noi giocavamo per la maglia, non per i like.”
“Uno come Baresi oggi varrebbe 80 milioni.”
“I giovani non hanno fame, solo procuratori.”
Non sono analisi. Sono rimpianti mascherati da giudizi, e finiscono per appiattire il confronto su una linea netta: passato glorioso vs presente decadente.
Ma la realtà è più complessa.
Il calcio attuale è iper-tecnico, collettivo, scientifico. È vero: forse c’è meno improvvisazione, meno romanticismo. Ma c’è intelligenza, lettura, connessione. Ci sono giocatori come De Bruyne, Bellingham, Musiala, che non valgono meno dei Rivera o dei Totti. Solo, parlano un’altra lingua. E non è peggiore: è contemporanea.
Il danno collaterale di tutto questo è la marginalizzazione del giornalismo sportivo serio. Non quello urlato o schierato, ma quello che legge le partite, che fa domande scomode, che analizza senza dover aver fatto 300 presenze in Serie A.
Oggi il giornalista, se vuole restare in onda, deve parlare come un ex calciatore, ma senza esserlo. E se osa mettere in discussione la narrazione nostalgica, viene visto come “quello che non capisce perché non ha giocato”.
Pluralismo, non reverenza.
Il calcio è di tutti. Di chi l’ha giocato e di chi l’ha studiato. Di chi lo racconta con emozione e di chi lo decostruisce con logica. Limitarsi a un solo punto di vista, per quanto autorevole, impoverisce la conversazione.
Non serve togliere spazio agli ex calciatori. Serve ridare dignità al giornalismo sportivo, quello vero. Quello che sa spiegare, criticare, raccontare il calcio per quello che è — non per quello che è stato.
Il calcio non è morto. Ma è il dibattito che sta morendo, sotto il peso di troppi ex che rimpiangono il passato, parlano in codice, e non accettano che il gioco sia andato avanti senza chiedere il permesso.
E dire che negli anni ‘20 dopo le commissioni tecniche si scelse di ricorrere ad un giornalista, Vittorio Pozzo, per rilanciare la nazionale in vista dei mondiali. Era, il giornalista, la migliore espressione di semplificazione nella complessità: l’uomo che viaggiando e vedendo calcio poteva portarlo ad una sintesi efficace.
Risultato? L’unico ct al mondo ad aver vinto i mondiali due volte era un giornalista. A voi sembrerà poco.
Outro
Quanto ho scritto sopra non deve suonare come difesa acritica della categoria. Tutt’altro. Chi mi conosce sa che considero il corporativismo come il peggior lascito di quegli stessi anni in cui Pozzo era ct.
Il giornalismo italiano soffre di un eccessivo corporativismo che ne mina la credibilità e la capacità critica. Troppo spesso le testate difendono a priori i propri membri, anche di fronte a errori evidenti o scorrettezze professionali, alimentando una cultura dell'impunità interna.
Questa chiusura autoreferenziale scoraggia l’autocritica e favorisce una visione distorta della realtà, dove la protezione del “collega” prevale sull’interesse pubblico.
Inoltre, il corporativismo ostacola il rinnovamento generazionale e l’apertura a figure indipendenti o non allineate ai grandi gruppi editoriali.
Il risultato è un'informazione incline a ripetere narrazioni dominanti senza approfondimenti veri.
Un giornalismo autoassolvente e rassicurante per necessità più che per scelta.
Anche per oggi è tutto. A presto!
Giovanni
Grazie Giovanni, hai colto uno dei problemi maggiori e meno analizzati (le cose non a caso s'intrecciano) dello sport contemporaneo. In verità il giornalismo tradizionale è in caduta libera su tutta la linea, e i danni maggiori si vedono in ambiti ahimè ben più importanti di quello sportivo. Facendo parte di quella schiera (sempre meno esigua e sempre più agguerrita) di chi prova a rialzare il tono della nostra narrazione sportiva, mi domando però quanto in realtà il modello che critichi saprà reggere. So di non essere il fruitore medio del giornalismo sportivo italiano, ma ormai io non leggo né ascolto determinati contenuti. Magari leggo contenuti tipo la tua newsletter o un longform dedicato a storie che mi appassionano, ma non mi passa neanche per la testa di scaricare la Gazzetta o di sentire un minuto del post partita di Dazn (lo squallore dei loro "approfondimenti" il principale motivo per cui l'ho disdetto, ancora più del già folle prezzo).
Sono convinto che il proliferare di possibilità autonome di raggiungere il pubblico (Substack ne è un esempio) nel giro di qualche anno premierà chi ha le capacità per proporre una lettura più qualitativa del mondo sportivo.
Gran pezzo, complimenti.