Si può essere tifosi senza essere ultras?
Il tifo organizzato gode di un successo che si manifesta attraverso linguaggi e identità comunemente accettati anche da chi non va in curva, ma che spesso ribaltano significati e significanti.
Berlino, 9 ottobre 2024
Prima di morire diventerò milanista, così ce ne sarà uno in meno (Peppino Prisco)
Del fu vicepresidente dell’Inter, Peppino Prisco, ho sempre apprezzato l’aristocratica ironia d’altri tempi: un bonario signore milanese con poca fantasia e humor glaciale, che amava riciclare frasi, sentite o lette altrove, alla realtà meneghina.
Oltre a quella da me riportata sopra (che era nata in una disputa Boca - River) ne aveva rubata una a Bill Shankly: “a Liverpool ci sono solo due squadre, il Liverpool e la seconda squadra del Livepool” da lui cambiata con la Primavera dell’Inter.
Prisco era uomo di tribuna vip e salotti, che difficilmente avresti immaginato al bar, in contesti popolari. Noialtri, da questa parte del mondo, che frequentiamo più osterie che salotti borghesi, quotidianamente ci imbattiamo invece in alcuni significati sociali mutuati dalla cultura ultras.
Li accettiamo e raramente li mettiamo in discussione, ma forse una riflessione su di essi e su quali significati sia bene adottare o meno.
Ci ho pensato dopo che ho visto due titoli della Gazzetta dello Sport riferiti a questo sondaggio. Al di là delle tempistiche che, ricadendo a ridosso di un inquietante caso di cronaca giudiziaria (e due casi di cronaca nera, giusto per non dimenticarselo), non si prestano ad una profonda riflessione a tutto campo, come sempre mi interessa molto sapere cosa ne pensate e quindi non esitate a lasciare un commento.
Gli ultras nella quotidianità…
Piccola premessa: le cose che leggerete qui non vogliono essere autoassolutorie, anzi: se ne parlo è perché a volte io stesso ho accettato certi cliché (non sempre, ma a volte sicuramente) e nemmeno ho la pretesa che siano condivise in toto.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra insomma.
Tuttavia mi sembrano buoni spunti di riflessione da cui possiamo partire per capire di cosa parliamo, quando parliamo di ultras, nella quotidianità e nel linguaggio.
Le rivalità iperestese. Siccome sei bresciano odi i bergamaschi. Devi, odiare i bergamaschi. E via di spiegazioni storiche e sociologiche, per giustificare quella che in realtà è una rivalità tutta calcistica che se non fosse stata rispolverata nel 1986 (conoscete la storia? Me la raccontò un ex ultras… è molto interessante: stavano per gemellarsi…), si sarebbe persa nella notte dei tempi. Una cosa è la chiacchiera, ma che questo diventi invece elemento di identificazione ovunque si vada nel mondo e venga evocata tra le prime cose quando si incontra una persona di una determinata città è certamente segnale di come la cultura ultras sia radicata nel pensiero comune, pretenda di andare oltre lo stadio e ci riesca pure. Per dire: qualche settimana fa un consigliere comunale bresciano è stato bersagliato sui social per aver detto che l’Atalanta aveva giocato bene e vinto con merito.
I gemellaggi. L’altro lato della medaglia. Le amicizie ostentate, come i gemellaggi, non esisterebbero se non esistessero le rivalità che portano allo scontro. La gran parte di queste amicizie, peraltro, sono una necessaria forma di supporto territoriale quando una tifoseria in trasferta si trova a fronteggiarne una storicamente rivale. Spesso si dice che i gemellaggi sono la parte buona del tifo in quanto espressione di amicizia e rispetto . Dopo di che se non ci fossero le rivalità e la necessità da far scalare queste a livello di scontro, non sarebbero necessari nemmeno le amicizie elevate a rapporti fraterni.
Gli insulti bonari, la loro liceità e ripetitività. Dare del ladro (o del maiale, aggiungete voi gli epiteti…) a una persona non potrà mai essere una forma di amichevole sfottò, se non in condizioni di amicizia particolarmente radicata nell’ironia reciproca. Rarissimo. Eppure l’identificazione in questa direzione, che sui social finisce per manifestarsi in una iperbole quotidiana di epiteti considerati leciti quanto inaccettati, è radicatissima.
Lo spostamento del perimetro degli atteggiamenti accettati, se si è allo stadio. Esistono la discriminazione territoriale e gli ululati razzisti e su entrambi (pur con diversi gradi) si sono fatti passi avanti in questi anni, al fine di ridare a certi gesti la loro accezione naturale (condannandoli). Ma è innegabile che per molti, anche non ultras, quello che accade attorno al rettangolo di gioco ha una giustificazione a sé. E lo vediamo soprattutto sui campi di provincia, (ricordo un episodio in prima persona durante un derby di Bagnolo Mella) dove anche distinte signore in età avanzata rischiano di diventare esempi di non spiccata correttezza lessicale face to face. Pienamente giustificate a loro dire dall’essere su una tribuna di fronte ad una partita di calcio.
L’idea che il tifo organizzato rappresenti sempre l’opinione maggioritaria di chi simpatizza per una squadra. Ne siamo talmente abituati - e il dibattito social ci porta a questa massificazione indotta - che siamo spesso portati a pensare che le opinioni espresse dai gruppi rappresentino per estensione quelle dell’intero stadio. E che opinioni diverse escano dal perimetro dell’autenticità e siano giocoforza dettate da interessi altri, rispetto a quelli del campo e della squadra (ultimamente i piani sembrano essersi ribaltati alla luce di un certo affarismo da stadio). In alcuni stadi ricordo isolati momenti di divisione tra tribuna e curva in cui la non rappresentatività della minoranza rumorosa si è manifestata in maniera plastica, ma l’impressione che si fatichi ad andare oltre la dicotomia secondo cui quella urlata dalla curva è senza dubbio l’opinione del tifoso puro e autentico e tutto il resto sia contro l’identità del club e quindi non ammissibile, è evidente e pure incentivata dalla narrazione giornalistica.
L’idea che il tifo organizzato con la sua dialettica e i suoi metodi sia interlocutore legittimo, se non addirittura necessariamente utile, di società e squadre. Da qualche anno sappiamo che la chiamata “a rapporto” sotto le curve con tanto di ramanzina carica del consueto armamentario retorico è proibita. Lo sono - per chiarezza - tutti i rapporti tra gruppi e tesserati, con buona pace di chi ammette che esistono: “rapporti di interlocuzione e ciò rientra nelle note dinamiche del rapporto abituale“. Esistono insomma rapporti diretti ed al contempo l’esplicita giustificazione di una interlocuzione che non si svolge certo secondo le regole dei dibattiti accademici negli atenei americani, ma che avvengono in nome di una autoproclamata autorità che i club sembrano accettare. Al di là della liceità o meno vi è il tema della giustificazione, da parte di coloro che hanno la stessa fede calcistica di quel gruppo di ultras, di certi interventi nei tempi, modi e contenuti in cui si verificano, come fossero un reale metodo di soluzione dei problemi (per lo più, in genere, di ordine sportivo). Del peccato originale del calcio italiano, in questo senso, ho parlato nella newsletter di sabato.
Il ribaltamento del concetto cristiano di morte. Anni fa chiesi ad un sacerdote se fermare le manifestazioni in seguito a fatti luttuosi fosse un retaggio culturale cattolico che si stava affermando in maniera sempre più estesa. La fattispecie, per me incomprensibile, era il derby della Mole spostato in quanto coincidente con i 70 anni della tragedia di Superga, ma in questi anni ci sono stati vari esempi in tal direzione con un atteggiamento pressochè univoco tra le tifoserie da Nord a Sud del Paese. Lui mi rispose che in realtà nell’ortodossia cattolica la morte andrebbe praticamente festeggiata come passaggio a miglior vita. “Fermarsi”, mi disse, è più la manifestazione di un ateo nichilismo. Oppure - credo - è la pretesa manifestazione di ossequio a qualcuno che da certi episodi coglie occasione per marcare il perimetro della propria influenza, del proprio potere e territorio di azione.
La relativizzazione del lutto e la sua trasfigurazione. Gli striscioni sull’Heysel e su Superga li abbiamo visti tutti. Quando vivevo a Manchester ho sempre apprezzato la presenza di tifosi di entrambe le parti l’8 febbraio alla commemorazione della strage di Monaco in cui perirono diversi giocatori del Manchester United. Da una parte abbiamo il concetto di lutto come cosa di parte, dall’altra il suo ritorno a quello che dovrebbe essere: tutti uguali davanti alla morte, e senza colori. Negli ultimi anni non si può additare il tifo organizzato su questo tema, ma le responsabilità storiche dello sdoganamento di certi ripugnanti atteggiamenti sono innegabili. E oggi assistiamo purtroppo al successo di quello che dicevo sullo spostamento del perimetro degli atteggiamenti accettati.
Lo sdoganamento di concetti come vergogna e perdono riferiti ad una sconfitta sportiva. Nello sport la vergogna non è intrinseca alla sconfitta ma ad un mancato impegno, soprattutto nei casi di combine ovvero nell’accettare interessi personali e corruzione che travalicano quelli di squadra. Di questi, e solo di questi, bisognerebbe chiedere perdono (dietro opportune sanzioni). Ed invece ai giorni nostri non solo un 5-0 ma anche una sconfitta contro un avversario di rango inferiore che quel giorno ha performato meglio diventa motivo per evocare la vergogna e chiedere perdono. Il tutto in ossequio alla logica per cui se supportati in un certo modo non si può perdere e l’unica ragione di una sconfitta è non già in ragioni tecnico tattiche ma in un mancato impegno, diventando un’onta morale per il calciatore a prescindere dal contesto.
L’autenticità e la tradizione, solo se riconosciuti dal pensiero Ultras. Ci pensavo in queste ore dopo l’annuncio di Jurgen Klopp al Lipsia, che in molti stigmatizzano come tradimento dei valori di cui il tecnico ex Liverpool si è sempre fatto portatore, e ne parlavo con un amico, ultras dell’Hertha. Perché un club nato nel 2009 che fa 45 mila persone di media allo stadio (quindi ha un seguito importante, a meno che si vogliano dare anche patenti e giudizi sulla passione altrui), dev’essere dipinto come qualcosa di artificiale al cospetto di club che esistevano 40 o 50 anni fa? E perché solo questi club dovrebbero avere diritto di cittadinanza nel calcio? Nel caso del Lipsia la voce dominante è quella dei tifosi organizzati (che ho avuto il dispiacere di incrociare anni fa durante una partita di Terza Divisione) del Lokomotiv, che rivendicano una primogenitura cittadina sulla tradizione calcistica. Ma quello stadio sempre oltre il 90% di riempimento forse ci dice altro. Maggioranze silenziose.
Sono certo che qualche collegamento mentale lo avete fatto leggendo quanto ho scritto fin qui. Ditemelo nei commenti aggiungendo le vostre considerazioni.
Note a margine.
Plusvalenze. L'analisi dei bilanci delle squadre di Serie A (su Calcio e Finanza) mostra utili record legati principalmente alle plusvalenze. La Lazio ha recentemente registrato un utile di 38,5 milioni di euro, il miglior risultato della sua storia. I club come Napoli, Juventus e Atalanta hanno beneficiato di cessioni lucrative, contribuendo in media al 32% dei ricavi. Risultati sportivi inattesi e una gestione attenta del mercato hanno portato a questi traguardi economici.
Mondiale per club. FIFA ha modificato temporaneamente le regole di trasferimento per il prossimo Mondiale per Club, permettendo ai giocatori in scadenza di contratto il 30 giugno di firmare in anticipo come free agent con una delle 32 squadre partecipanti. Inoltre, i club potranno estendere i contratti dei giocatori fino al termine del torneo, che si terrà dal 15 giugno al 13 luglio 2025. Le nuove regole includono anche un'esenzione che permette ai club di non rilasciare giocatori convocati per competizioni internazionali sovrapposte, come la Gold Cup.
Var a chiamata. A quanto pare la FIGC sta accelerando per introdurre l’ultima frontiera della discrezionalità arbitrale: il VAR a chiamata. Della mia contrarietà a questa novità ho parlato nelle scorse settimane in questo numero di IVC.
Outro.
I tifosi nei CdA.
C'è un acceso dibattito nel governo italiano riguardo all'introduzione dei tifosi nei consigli di amministrazione (CdA) dei club calcistici professionistici, una proposta avanzata dal ministro Giorgetti.
Mentre Forza Italia e il senatore Lotito si oppongono fortemente all'iniziativa, considerandola impraticabile, soprattutto per le società quotate in borsa, la Lega è più favorevole e disponibile a discutere modifiche.
La tensione è aumentata, ma una tregua temporanea è stata raggiunta.
Senza dubbio siamo in presenza - alla luce delle indagini milanesi - di uno dei dibattiti più assurdi di sempre. Soprattutto per la tempistica, ma anche per l’inevitabile collegamento alla cronaca giudiziaria di questi giorni.
Si ha ancora una volta l’impressione che la politica viva su un altro pianeta. E non c’era veramente alcun bisogno di conferme.
Anche per oggi è tutto. A presto!
Giovanni
Il punto importante secondo me l’hai toccato e va sottolineato. In Italia si pensa che senza una curva organizzata e dei capi ultras senza maglia e con un megafono non si può tifare. Ormai i cori partono esclusivamente da loro e questo “potere” è diventato sempre più ampio (parcheggi, biglietti ecc…). Molte persone hanno però paura degli stadi proprio per questi motivi; trovare una soluzione ad oggi sembra impossibile dato che, come scritto nell’articolo, questo tipo di atteggiamento è ormai radicato dentro la maggior parte dei tifosi.
Grazie Giovanni.
Non aggiungo nulla alla tua disanima sempre impeccabile.
Dico solo che io sono un tifoso da cameretta, ho visto solo 3 partite di calcio dal vivo, un udinese atalanta 0-0 di una noia mortale (a farla da padrone morfeo, ma quello greco...), un udinese juventus vinto dalla juve ma non mi ricordo più niente, e un treviso genoa 3 a 0 che mi ha puzzato peraltro di combine lontano un miglio (e dal vivo certe cose si percepiscono più che alla tv). Da adolescente ho visto qualche partita del Conegliano, ma i piccoli fasti dei primissimi anni '80 erano finiti e ho scordato il tutto...
Le bassezze dell'uomo in una tribuna/curva non mi appartengono, o forse, meno ipocritamente, mantengo un aplomb e un distacco in casa salvo poi scaricare la rabbia su altro... però io che piango disperato sul poster della Juve dopo il gol di Magath è un ricordo indelebile di una sofferenza estrema.
Questo perchè resto un tifoso, anche se non ho ancora capito perchè, malgrado le mie ricerche spirituali e il cercare di diventare una persona migliore, sento ancora il bisogno di attaccarmi ad una fede nei confronti di una società calcistica... Lo accetto, lavorando ogni giorno su me stesso per non incorrere nelle bassezze di cui sopra...
P.s. per non farmi mancare nulla sono stato anche un alpinista da salotto.
marco